di Federico Zappino
Ne La vita psichica del potere, Butler scrive: “Il ricorso all’affermazione che il soggetto sia attaccato appassionatamente alla propria sottomissione [viene] invocato – spesso cinicamente – da coloro che tentano di minimizzare la portata delle rivendicazioni degli oppressi”[1]. Si tratta di un’affermazione che leggo come un modo inequivocabile di stabilire delle differenze tra i vari modi di invocare quella prospettiva secondo la quale tra il soggetto e il potere vi sarebbe una relazione di necessaria, e dialettica, dipendenza. Di per sé, infatti, potrebbe essere invocata da chiunque, per qualunque scopo, e innanzitutto per scopi di giustificazione e di normalizzazione di ogni forma di “sottomissione” degli “oppressi”.
Dirimente, al contrario, è osservare che, per poter compiere questa affermazione Butlerdebba innanzitutto dare per scontata 1) l’idea che il “potere” possa essere “sottomissione”, e che i “soggetti” possano essere “oppressi”; 2) che gli oppressi pongano in essere delle rivendicazioni finalizzate alla liberazione dalla sottomissione; 3) che la portata di quelle rivendicazioni di liberazione degli oppressi dalla sottomissione si trovi a essere minimizzata – “spesso cinicamente” – dalla strumentalizzazione di una teoria secondo la quale gli oppressi sarebbero necessariamente dipendenti o appassionatamente attaccati a quella sottomissione dalla quale pure vorrebbero, vanamente, liberarsi. “Al di fuori di quella relazione non c’è possibilità di vita”, sembra quasi di sentire; “siamo tutti artefici del potere che subiamo”[2]. Il sottotesto implicito è che se quel potere ti rende la vita invivibile è perché non sei in grado di resistervi adeguatamente, in un cortocircuito foucaultiano e contro-foucaultiano. E, a proposito di Foucault, è più o meno un’altra massima a essere piegata al servizio della mera normalizzazione: “Là dove c’è potere c’è resistenza”.
La resistenza, scrive in effetti Foucault ne La volontà di sapere, non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere. Bisogna dire che si è necessariamente “dentro” il potere, che non gli si “sfugge”, che non c’è, rispetto ad esso, un’esteriorità assoluta […]. Vorrebbe dire misconoscere il carattere strettamente relazionale dei rapporti di potere. Essi non possono esistere che in funzione di una molteplicità di punti di resistenza, i quali svolgono, nelle relazioni di potere, il ruolo di avversario, di bersaglio, di appoggio, di sporgenza per una presa. Questi punti di resistenza sono presenti dappertutto nella trama di potere[3].
Tutto ciò, a scanso di equivoci, resta per me incontestabile. Ciò su cui mi preme qui insistere, tuttavia, è che secondo le deplorevoli strumentalizzazioni di queste parole, il mero fatto che il soggetto, propriamente, sia sempre “dentro” il potere, e mai esterno a esso – innanzitutto perché dipende da un determinato insieme di condizioni simboliche e materiali per la propria emersione, oltre che per la propria capacità di parlare e agire – sarebbe agitato al fine di ostacolare il proposito di liberazione da quel potere (o, almeno, nei casi in cui vi siano dei soggetti a ritenerlo opprimente, che non è poco), anziché al fine di supportare, integrare, e rendere più effettivo, il fine stesso della liberazione, o almeno una certa declinazione di questo concetto.
In queste poche note a margine di una riflessione più ampia sulla relazione tra la liberazione e il disassoggettamento, e tutt’ora in corso, intendo forse sondare un modo per ripensare il significato di “liberazione” al fine di interrompere la reiterazione di quella prospettiva teorica, nonché pratica, per la quale la liberazione da un potere ritenuto opprimente sarebbe antitetica a ogni analisi di matrice foucaultiana sull’assoggettamento di ciascun soggetto, per la propria soggettivazione, a quello stesso potere, non importa quanto opprimente o abilitante esso possa essere percepito. Io stesso ho dato l’impressione di sposare questa distinzione in modo piuttosto rigido, altrove, ma vorrei ora ritornare su quella distinzione. Se intendo farlo non è perché, di punto in bianco, ritengo che la prospettiva della liberazione da un potere opprimente sia più vera, o autentica, di un’analisi meno grossolana sulla distinzione tra il soggetto e il potere, tra la soggettivazione e l’assoggettamento. Il mio proposito, semmai, consiste nella comprensione dei modi attraverso i quali queste due posture teoriche e pratiche potrebbero a un certo punto svelare di non essere affatto antitetiche, ma, ad esempio, un sostegno l’una per l’altra. Può essere importante, infatti, contemplare l’ipotesi che l’assoggettamento non impedisca affatto la liberazione, così come l’ipotesi che le teorie della liberazione debbano fare molta attenzione a non reiterare ulteriori, eventuali, assoggettamenti.
Che ne è, d’altronde, del fatto che si possa essere inevitabilmente implicati in rapporti di potere, per la propria esistenza e, tuttavia, ritenere, a un certo punto, che i costi della liberazione siano elevati, ma non meno di quelli in cui già consiste l’assoggettamento? Che ne è del fatto che si possa essere ontologicamente dipendenti e tuttavia politicamente arrabbiati, o sfiniti? Che ne è della possibilità di problematizzare l’assunto secondo cui “là dove c’è potere c’è resistenza”, a partire dalla mera constatazione del fatto che il potere e la resistenza non sussistano in un rapporto di simmetria, o che la resistenza non solo possa essere sottilmente plasmata, o pesantemente indotta entro canali di perfetta e innocua docilità, dal potere stesso, ma possa proprio essere materialmente, e brutalmente, criminalizzata, e repressa da quello stesso potere, specialmente nei casi in cui la resistenza appaia tutt’altro che innocua, o docile? E che ne è del fatto che ciò che continuiamo a chiamare “resistenza” possa cedere il passo alla mera depressione, all’isolamento, alla reclusione, all’indigenza, alla morte sociale, se non proprio alla morte effettiva? Finora devo ammettere di non aver sentito troppe risposte all’altezza di queste domande; benché non ne abbia nemmeno io, vorrei tuttavia provare a tracciare alcune linee che, mi sembra, possano aiutare chiunque voglia articolarne una, a provarci, senza timore.
Con quale responsabilità politica, ad esempio, ancor prima che filosofica, si ha il coraggio di ricordare con leggerezza che “là dove c’è potere c’è resistenza” a chi non ha un tetto sulla sua testa, e viene sgomberato dallo stabile che aveva occupato? La pratica dello sgombero sembra aver superato di gran lunga, nel numero e nella forma, l’ottimismo col quale si guarda alle occupazioni. Indubbiamente, l’occupazione di uno stabile è una forma di resistenza nei riguardi del potere, nelle sue molteplici modalità organizzative. Lo è nei riguardi della legge, innanzitutto, dato che l’occupazione è codificata, appunto, come illegale. In secondo luogo, lo è nei riguardi delle politiche abitative di questa o quella amministrazione comunale – le quali preferiscono tenere liberi gli edifici vuoti, in attesa del miglior offerente, piuttosto che destinarli a chi non ha un tetto. Infine, lo è nei riguardi di quel più vasto insieme di condizioni di relazione tra i poteri politici ed economici che, com’è evidente, contempla perfettamente l’idea che il divenire senzatetto non sia una remota possibilità, e che la possibilità di mutare la destinazione sociale della casa in vista della risignificazione economico-finanziaria sia la regola. E quest’ultima considerazione eccede la dimensione meramente situata attraverso la quale si tendono, spesso, a leggere fenomeni di questo tipo. I movimenti per l’occupazione delle case, più o meno organizzati, esistono a Bologna, come ad Atene, come a Buenos Aires. E i collettivi che fanno dell’occupazione degli spazi una pratica che è essa stessa parte non accidentale della propria lotta politica sono tanti, come sappiamo.
Nel recente Notes Toward a Performative Theory of Assembly[4], Butler legge l’azione di chi non ha uno spazio e ne occupa illegalmente uno come una rivendicazione performativa del “diritto ad avere diritti”, traendo parziale ispirazione dalla formulazione di Hannah Arendt[5]. “Questo diritto”, scrive, non è codificato da nessuna parte. Non è garantito in nessun luogo, né da alcuna legge esistente, sebbene a volte, da essa, possa essere supportato. Si tratta del diritto ad avere diritti, inteso né come legge naturale né come patto metafisico, ma come persistenza del corpo contro quelle forze che tentano di debilitarlo o di sradicarlo. Si tratta di una persistenza che irrompe nel regime spaziale istituito, la quale è mobilitata dai suoi supporti materiali, e che al tempo stesso li mobilita. Ripeto: non parlo né di vitalismo, né di diritto alla vita in quanto tale. Ciò che intendo dire, piuttosto, è che le rivendicazioni politiche sono messe in atto dall’apparizione dei corpi e dal loro agire di concerto, dalla loro messa in atto di forme di rifiuto e di persistenza, in condizioni per cui quel fatto, da solo, ha il potere di minacciare lo stato di delegittimazione (ibid. trad. mia).
Dunque, se non ho una casa e se, al contempo, non ho un reddito o una dote che mi consentano di garantirmene una, magari anche abitabile, il mio “diritto ad avere diritti” è costretto ad autoriconoscersi attraverso quell’atto performativo che consiste nell’occuparne una. Ci si può ovviamente dilungare, teoricamente, sui motivi per i quali usi il termine “costretto”; per quanto mi riguarda, dico “costretto” perché l’alternativa a quell’atto di occupazione è l’esposizione radicale alla possibilità di morire di stenti determinata da quello stesso insieme di poteri politici ed economici che non intende affatto mettere al riparo ciascun individuo dalla possibilità di non avere un tetto sotto al quale vivere, lavarsi, amare, e prosperare. E mi è anche chiaro che non tutte le persone senzatetto si percepiscano “costrette” a occupare una casa; una certa declinazione del concetto di “assoggettamento” verrebbe senz’altro in nostro soccorso al fine di illuminare questa mancata percezione.
A ogni modo, l’atto di occupare è performativo perché non è assoggettato al fatto che ogni costituzione democratica esistente, o che ogni dichiarazione formale dei diritti umani sanciscano che il diritto alla casa e al riparo non possa essere negoziabile. Non è importante, infatti, che siano le autorità formali a riconoscere che la casa è un diritto, come pure fanno. Se ciò non è importante non è solo perché quello stesso riconoscimento formale non è supportato da un insieme di condizioni che siano materialmente in grado di renderlo effettivo, come ad esempio la garanzia di reddito (attraverso il quale provvedere alle utenze di una casa), o come le politiche redistributive (che rendano accessibile la casa a seconda della propria possibilità di far fronte ai suoi costi). Se non è importante che sia un’autorità formale a riconoscere che la casa è un diritto, piuttosto, è perché sono gli stessi atti di occupazione della casa, in condizioni in cui la casa è interdetta a chi non ha redditi, lavoro o proprietà, a esemplificare performativamente che la casa è un bisogno, e un desiderio, ancora prima che un diritto.
È importante chiarire che se non ho una casa in cui vivere, e se non ho modo di garantirmene una, e dunque la mia vita è segnata dall’indigenza, non è da imputare all’imprevedibilità del caso, né tantomeno a un fallimento individuale. Infatti, che le nostre vite siano costitutivamente precarie [precarious], fallibili, mortali, esposte a ciò che può accadere – come l’amore, come la violenza, come la morte – in nessun modo deve obliterare che le vite di alcun* siano più precarie di quelle di altri, e che ciò sia da imputare alla produzione differenziale della precarietà [precarity] da parte dei poteri così come sono organizzati, e degli effetti che producono anche su quelle stesse cose che siamo soliti attribuire alla costitutiva precarietà della vita – proprio come l’amore, come la violenza, come la morte, le quali non sono mai pienamente scindibili dalla distribuzione sociale, della precarietà. Tutti, d’altronde, moriamo prima o poi; questo è ciò che ci accomuna in quanto esseri ontologicamente precari. Eppure, per alcun* la vita finisce sotto i bombardamenti, o a seguito di uno stupro, o perché ti hanno preso in giro, a scuola, per ciò che provavi nei riguardi di un tuo compagno; e per altr* finisce per debiti non restituibili, o perché ti hanno sgomberato dalla casa che occupavi e non hai più un tetto sulla tua testa. E tutto ciò ci differenzia in quanto esseri socialmente precari.
Se non ho una casa in cui vivere, allora, è da imputare alla responsabilità di precise istituzioni politiche – ossia, di precisi poteri – che hanno mancato nel dovere di arginare la precarietà e di rendere effettivo questo diritto, e che si rivelano dunque nella loro illegittimità. E non basterebbe a superare questa illegittimità se qualcuno dotato di più potere di me, in seno a questa o quella relazione di potere, mi sottraesse dalla mia condizione di senzatetto e mi garantisse la possibilità di avere una casa, perché l’illegittimità non si emenda con l’arbitrio, né con l’aleatorietà. Io avrei una casa, ma tu continueresti a non averla, e insieme a te molti altri. E continueresti a non averla perché, ad esempio, non saresti disposto ad accondiscendere ai requisiti dai quali potrebbe dipendere il tuo riconoscimento, in seno a questa o quella relazione di potere, o perché nessun potere, per fare un altro esempio, ti giudicherebbe degno di cooptazione.
L’atto di “occupare” una casa, pertanto, non equivale né all’atto di “chiedere” una casa, inteso come riconoscimento di un diritto, né all’atto di “ricevere” una casa, inteso come concessione – una concessione che presuppone un disciplinamento – da parte di chi è privilegiato, in seno a questa o quella relazione di potere. Tali elementi concorrono nella definizione della sua performatività. Occupare una casa, in un contesto in cui la casa è accessibile solo a chi ha un reddito – e in un contesto in cui il reddito deriva solo dal lavoro – significa infatti performare la vita nel bel mezzo di condizioni che la minano, o che la vorrebbero ostacolare. E significa, sempre attraverso quell’atto, sottolineare la responsabilità del potere nella creazione dell’invivibilità stessa, richiamando l’attenzione su tutto ciò che è necessario alla vivibilità perché possa dirsi tale – reddito, cibo, wc funzionanti, qualche mobile, medicinali, luce elettrica, riscaldamento, acqua corrente, socialità. Di conseguenza, è “performativo” l’agire di coloro la cui azione è un atto di resistenza nei riguardi della ripartizione differenziale della precarietà, e che, attraverso quell’azione, mirano a evidenziare le modalità operative del potere che producono quella stessa precarietà.
Per Butler, ciò esemplifica la riappropriazione performativa, da parte di chi non ha una casa, del potere che gli viene negato, al fine di mettere in evidenza quella negazione, e di contrastarla. “Come quei movimenti di occupanti abusivi”, scrive, nei quali coloro che non hanno più una casa si trasferiscono a vivere all’interno di edifici disabitati e da quella situazione rivendicano un diritto di residenza; e come per tali movimenti, non si tratta di un potere che precede l’atto, che poi si diventa in grado di agire. La questione, a volte, sta tutta nell’agire, perché in quell’agire risiede il potere che si rivendica. Questa è la performatività per come la concepisco, ed è un modo di agire determinato dalla precarietà [precarity], e volto ad abbatterla (ibid. trad. mia).
La performatività consiste dunque nel potere dell’azione di abbattere ciò da cui è indotta; è interessante osservare che questa formulazione ci consente di rileggere, finalmente, anche l’azione performativa della drag – in Gender Trouble – nei termini di un’occupazione abusiva. Se a questo mondo non ho una casa, se il mondo così com’è organizzato non prevede uno spazio per me, il mio atto di occupazione è performativo nella misura in cui abbatte ciò che lo induce. Potremmo dire che la resistenza è essa stessa “potente”, in quanto è nel suo svolgersi concreto – nel suo farsi – che risiede il suo stesso potere. Ma che ne è, di questa potenza, in caso di sgombero? Lo sgombero non è forse la manifestazione più visibile, da parte del potere, di debilitare e sradicare, materialmente, i corpi, nella loro resistenza, nella loro performativa persistenza? È sufficiente limitarsi a sottolineare che le occupazioni costituiscano modalità performative di espressione di bisogni e desideri (resistenze) in tutti quei casi in cui non c’è alcun diritto (o potere) a riconoscerli, senza però tenere in considerazione che quelle modalità performative siano suscettibili, in misura crescente, esponenziale, automatica, e sistematica di mera repressione?
Secondo alcuni, è il concetto stesso di “performatività” a essere divenuto inservibile. Ma questa non è la mia posizione; ciò che mi domando, al contrario, è come liberare il potenziale sovversivo dell’atto performativo dall’assoggettamento. Quale tipo di performatività è necessaria di fronte alla repressione delle sue potenzialità sovversive? Al fine di sollecitare risposte plurali, e collettive, vorrei invitare a riflettere, con attenzione, su ciò che accade in quei casi in cui il potere reprime la resistenza conferendo, concretamente, maggiori poteri alle forze di polizia, o codificando inasprimenti della pena per chi occupa uno spazio, o una casa. Ciò che accade è che non c’è solo repressione nei riguardi di un singolo e situato gesto di resistenza; ciò che accade è che c’è codificazione, e dunque universalizzazione, della criminalizzazione nei riguardi di chi occupa – ossia, di criminalizzazione della sua resistenza nei confronti di quella stessa condizione. Come hanno scritto i collettivi di Atlantide – da un anno sgomberati dallo spazio che hanno occupato per vent’anni, a Bologna – a sostegno degli ottantaquattro occupanti di case violentemente sgomberati in via De Maria, sempre a Bologna, “la ‘legalità’ e il ‘rispetto delle regole’ si configurano, oggi più che mai, come uno spietato strumento di produzione, riproduzione e legittimazione delle diseguaglianze sociali”.
Il “potere”, per dirla in altri termini, produce la possibilità di divenire senza casa, senza spazio, e, al contempo, criminalizza la “resistenza” di chi si rifiuta di pensare che sia colpa sua, o che il fallimento lo riguardi in quanto individuo, opponendosi a quello stesso rapporto di produzione. Ciò assume una forma ancora più tangibile quando la polizia, durante gli sgomberi, non si limita a usare spray urticanti, o a pestare a sangue persone disarmate, buttandole in mezzo alla strada, bensì distrugge i wc e i lavandini, ossia distrugge le condizioni minime alla vivibilità, non solo al fine di impedire a un occupante, o a un gruppo di occupanti, di performare un bisogno o un desiderio, ma proprio al fine di distruggere le condizioni che consentirebbero di performarli, ora e in futuro. A essere distrutta, pertanto, è innanzitutto la precondizione, per chi in questo mondo non ha alcuno spazio, di resistere a quel potere che lo produce in quanto tale.
Ciò che tali riflessioni mi inducono a domandarmi è se il servo non continui a dipendere, dialetticamente, da un padrone che ha minato le condizioni minime della dialettica stessa. Quale forma deve assumere la “resistenza”, di fronte a questo tipo di “potere”? Se, seguendo Butler, “la performatività è un modo di agire dettato dalla precarietà, e volto ad abbatterla”, e se la precarietà è già da sempre “sociale”, ossia indotta dai poteri così come sono organizzati, tale precarietà deve essere abbattuta abbattendo quegli stessi poteri. Non siamo affatto distanti da Foucault. Proprio perché quei poteri non sono mai pienamente disgiungibili da noi soggetti, il loro abbattimento richiede come prima cosa un dis-assoggettamento. Il dis-assoggettamento, cioè, dall’illusione che le condizioni minime della relazione tra l’assoggettamento e la soggettivazione siano tutelate dal “potere”, e che possano offrire un riparo dalla precarietà. Se iniziassimo a ragionare a partire dalla potenza di tale dis-assoggettamento, mi chiedo, quale tipo di liberazione potremmo immaginare?
NOTE
[1] Judith Butler, La vita psichica del potere. Teorie del soggetto, a cura di F. Zappino, Mimesis, Milano 2013, p. 46.
[2] Questo è, nella fattispecie, lo slogan riportato sulla fascetta dell’edizione de La vita psichica del potere, cit. che già nel 2013 mi costrinse a non pochi interrogativi.
[3] Michel Foucault, Storia della sessualità. Vol. 1: La volontà di sapere (1976), trad. it. di P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli, Milano 2004, p. 84 e s.
[4] Harvard University Press, London-New York 2015 (di prossima traduzione per Nottetempo, L’alleanza dei corpi).
[5] Cfr. Hannah Arendt, We, refugees, in “The Menorah Journal”, 1, 31, 1943.
Fonte: Effimera.org
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