La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 4 ottobre 2015

Così fu travolta la sinistra comunista

di Alberto Burgio
Ha fatto bene il mani­fe­sto a pub­bli­care il discorso in memo­ria di Pie­tro Ingrao — un testo breve ma denso di impli­ca­zioni — pro­nun­ciato da Alfredo Rei­chlin in piazza Montecitorio.
Col­pi­sce in primo luogo il rife­ri­mento all’attenzione che il gruppo diri­gente comu­ni­sta e Ingrao in par­ti­co­lare sem­pre riser­va­rono alla costru­zione di strut­ture sin­da­cali, poli­ti­che e cul­tu­rali ade­guate alle forme di vita che via via veni­vano affer­man­dosi nell’esperienza della classe ope­raia e dei ceti subal­terni. Si trat­tava dell’idea gram­sciana del radi­ca­mento del par­tito nella vita reale del «sog­getto». Ed era, forse più sem­pli­ce­mente, il riflesso della con­sa­pe­vo­lezza della neces­sità di trarre dal con­tatto diretto col mondo del lavoro gli ele­menti essen­ziali della let­tura cri­tica della società e, di qui, le diret­trici della bat­ta­glia per l’emancipazione e la trasformazione.
Non è un pas­sag­gio tra­scu­ra­bile. Spesso e non senza uni­la­te­ra­lità si parla di Ingrao come del diri­gente comu­ni­sta più attento alla fecon­dità dei movi­menti e più inte­res­sato al dia­logo con le forme emer­genti della sog­get­ti­vità.
E altret­tanto spesso lo si ricorda come l’uomo del dub­bio, insof­fe­rente al con­for­mi­smo e alla disci­plina impo­sta — non sem­pre per buoni motivi — nei par­titi comu­ni­sti pla­smati dall’esperienza della Terza Inter­na­zio­nale e della guerra anti­fa­sci­sta. Una disci­plina che Ingrao con­tra­stava non in linea di prin­ci­pio, per assunti pre­co­sti­tuiti. Ma per­ché vi rav­vi­sava un peri­colo di ripie­ga­mento su ste­rili cer­tezze, una clau­sola avversa alla ricerca fuori dagli schemi, all’ascolto spre­giu­di­cato della realtà. Non­ché una moda­lità incom­pa­ti­bile con la libertà dei sog­getti: al punto di scor­gere pro­prio in quella rigi­dità ideo­lo­gica e nella cifra auto­ri­ta­ria delle orga­niz­za­zioni due tra le prin­ci­pali cause della scon­fitta sto­rica del movi­mento comu­ni­sta nel secondo dopoguerra.
Quel che spesso tut­ta­via si dimen­tica è che quell’apertura e quella curio­sità si coniu­ga­vano con la cura per la comu­nità del par­tito e con la coscienza della sua fun­zione indi­spen­sa­bile nell’elaborazione del sog­getto e nella costru­zione del con­flitto di classe. Un’attitudine che si pone let­te­ral­mente agli anti­podi dell’ideologia del par­tito leg­gero nel cui nome, dalla seconda metà degli anni Ottanta, si prov­vide a sman­tel­lare la strut­tura arti­co­lata del Pci, a sra­di­carlo dai ter­ri­tori e dalle maglie della rela­zione sociale, ad avviarne la tra­sfor­ma­zione in par­tito d’opinione prima, in campo di con­cor­renza tra lea­der a fini elet­to­rali poi e, final­mente, in uno stru­mento di comando poli­tico sca­la­bile dai più agguer­riti por­ta­voce dei poteri forti. Sta­vano a cuore a Ingrao l’apertura al con­fronto come la pra­tica del dub­bio e la ric­chezza della ricerca con­creta. Ma non gli pre­me­vano di meno la sal­dezza dell’organizzazione come trama viva di rela­zioni umane, la sua com­pat­tezza e per­sino la sal­va­guar­dia delle sue ritua­lità tra­man­date e con­di­vise nel corso del tempo.
Que­sto abito fu una delle ragioni della sua radi­cale estra­neità alla meta­mor­fosi impo­sta al Pci e poi alla sua liqui­da­zione. Sulla scelta di Ingrao di «restare comun­que nel gorgo» non si smet­terà di discu­tere. Si trattò di una deci­sione pesante che molto influenzò le sorti del nascente movi­mento della rifon­da­zione comu­ni­sta e della sini­stra di alter­na­tiva tutta nel lungo periodo. Ma quel dato di fatto, l’appartenenza cul­tu­rale e antro­po­lo­gica alla sto­ria delle grandi orga­niz­za­zioni di massa del movi­mento comu­ni­sta, resta. E getta sulla sua figura una luce forse, in qual­che misura, tra­gica, se è vero che la deci­sione di stare nel Pds ne ali­mentò un non risolto travaglio.
C’è un secondo pas­sag­gio nell’orazione di Rei­chlin che merita un breve com­mento. A pro­po­sito della mon­dia­liz­za­zione neo­li­be­ri­sta egli ricorda come la sini­stra ita­liana ne sia stata «tra­volta». Si trattò di una cesura epo­cale, che forse per que­sto Rei­chlin defi­ni­sce «mate­ria ormai degli sto­rici». In effetti, così sulla pro­fon­dità del muta­mento, come su quel tra­vol­gi­mento non sus­si­stono dubbi. Epperò ciò non può voler dire che il giu­di­zio su quei pro­cessi e appunto su quel venirne tra­volti — quale che sia la let­tura che si ritenga di darne — non sia anche squi­si­ta­mente poli­tico. Quindi urgente, qui e ora, per le respon­sa­bi­lità che coin­volge, rivela e pone in evidenza.
Ad ogni buon conto pro­prio su quel pas­sag­gio sto­rico Ingrao insi­stette con forza a più riprese, invo­cando una revi­sione pro­fonda dei qua­dri ana­li­tici ma al tempo stesso riba­dendo l’esigenza di rilan­ciare la lotta per l’alternativa. La con­sa­pe­vo­lezza della por­tata della svolta con­ser­va­trice e della neces­sità di ria­prire una ricerca lo indusse a respin­gere la pro­po­sta di restare alla pre­si­denza della Camera alla fine degli anni Set­tanta, men­tre già si avviava lo sfon­da­mento neo­li­be­ri­sta. E mai egli ebbe ten­ten­na­menti — que­sto oggi va ricor­dato, senza rifu­giarsi in for­mule elu­sive o ecu­me­ni­che — nel valu­tare dove stes­sero le ragioni della moder­nità e del pro­gresso, dove quelle della rea­zione e della violenza.
Que­sto è un nodo al quale a nes­suno è con­cesso di sfug­gire. Che va discusso senza reti­cenze. La vicenda dei gruppi diri­genti post-comunisti dagli anni Ottanta a oggi non si com­prende senza rico­no­scere lim­pi­da­mente che il giu­di­zio da essi for­mu­lato sulla mon­dia­liz­za­zione neo­li­be­ri­sta fu cla­mo­ro­sa­mente sba­gliato. E che esso non ha sol­tanto por­tato alla muta­zione gene­tica delle mag­giori orga­niz­za­zioni poli­ti­che nate dallo sman­tel­la­mento del Pci — al loro sra­di­ca­mento dal ter­reno delle lotte del lavoro — ma ha anche, per ciò stesso, con­tri­buito a sta­bi­liz­zare l’egemonia della destra e a segnare, nella sto­ria del paese, gravi regressi sul ter­reno delle con­qui­ste sociali e delle garan­zie demo­cra­ti­che. E del resto lo stesso Rei­chlin pare rico­no­scerlo là dove pen­so­sa­mente ammette che chi ha diretto le forze mag­giori della sini­stra ita­liana non ha saputo custo­dire la sto­ria del movi­mento ope­raio e di quella sini­stra comu­ni­sta di cui Ingrao è stato una delle guide più auto­re­voli e amate.

Fonte: il manifesto 

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