di Francesco Brigati
Che il Mezzogiorno vivesse in uno stato comatoso e di “sottosviluppo” era sotto gli occhi di tutti, soprattutto di chi nel Sud ci vive. La relazione annuale dell’ Associazione per lo Sviluppo Industriale del Mezzogiorno (SVIMEZ) lo ha rappresentato in maniera dettagliata. Lo “tsunami” che ha travolto le province meridionali nei sette anni che ci separano dallo scoppio della crisi economica e finanziaria ha portato ad un crollo interno dei consumi e degli investimenti che nel lungo periodo produrrà “uno stravolgimento demografico imprevedibile che amplificherà la desertificazione industriale”.
Il mix di crisi e austerità ha accentuato il divario tra il Sud e il Centro- Nord del paese. L’economia meridionale ha fatto registrare una contrazione del tasso di crescita pari al 9,4% annuo: una tendenza molto peggiore di quella greca – che nello stesso periodo è declinata dell’1% annuo. Certo, questi dati non sono quelli del dopoguerra: l’inchiesta sulla miseria del 1952 fotografava una situazione drammatica del paese, e soprattutto del Mezzogiorno. Un esempio per tutti era racchiuso in un dato: solo il 54% degli italiani censiti disponeva di un paio di buone scarpe. Nel 1949 la CGIL di Giuseppe Di Vittorio elaborò il “Piano del lavoro”, un importante progetto di sviluppo economico per il Paese, che mostrava una particolare attenzione per il Sud.
Soltanto dopo, nel 1950, il governo istituì la “Cassa del Mezzogiorno”, con l’obiettivo di promuovere la crescita delle regioni meridionali. Oggi invece il governo Renzi, dopo quanto emerso dal rapporto Svimez, si limita a qualche annuncio. Per il Mezzogiorno l’unico provvedimento in vigore è il famigerato “Sblocca Italia”: un insieme di misure che mettono a rischio l’intero territorio meridionale con trivellazioni e grandi opere dissennate – contro le quali giustamente si sono ribellate le istituzioni rappresentative locali.
Soltanto dopo, nel 1950, il governo istituì la “Cassa del Mezzogiorno”, con l’obiettivo di promuovere la crescita delle regioni meridionali. Oggi invece il governo Renzi, dopo quanto emerso dal rapporto Svimez, si limita a qualche annuncio. Per il Mezzogiorno l’unico provvedimento in vigore è il famigerato “Sblocca Italia”: un insieme di misure che mettono a rischio l’intero territorio meridionale con trivellazioni e grandi opere dissennate – contro le quali giustamente si sono ribellate le istituzioni rappresentative locali.
I dati rappresentati dalla Svimez dovrebbero far riflettere la politica sullo stato in cui versa il Mezzogiorno d’Italia, e sopratutto su cosa fare per invertire la rotta. Riprendere a ragionare di politiche industriali, ormai assenti dal dibattito politico da circa 30 anni, è una priorità. In questi anni si sono realizzati processi di privatizzazione che hanno favorito solo alcuni “prenditori”. Oggi, in una fase di ristrutturazione, le svendite perseguite dal governo stanno provocando riduzioni di salario e cancellazione dei diritti, se non addirittura licenziamenti collettivi.
In questa fase si pone anche un altro tema: quello della rappresentanza sindacale. Di recente, lo studio del Fondo Monetario Internazionale, intitolato “Power from the people”, ha esaminato le diverse cause alla base dell’aumento delle diseguaglianze nei paesi industrializzati. Dall’analisi è emerso che il declino del numero dei lavoratori iscritti ai sindacati spiega circa la metà dell’aumento della concentrazione del reddito nelle mani 10% più ricco della popolazione, registrato tra il 1980 e il 2010. “L’indebolimento dei sindacati – affermano i redattori del Rapporto – riduce il potere contrattuale dei lavoratori rispetto a quello dei possessori di capitale, aumentando la remunerazione del capitale rispetto a quella del lavoro”.
Oggi il sindacato deve tornare ad essere un luogo di confronto, democratico e il più possibile aperto, in cui i lavoratori siano protagonisti. A partire dalla battaglia per il rinnovo del Contratto Nazionale di Lavoro dei metalmeccanici, i lavoratori devono diventare gli attori principali di una ripresa del conflitto. La funzione di “mediatore sociale” indicata dallo stesso FMI – e ben praticata da Cisl e Uil – non è più accettabile. Gli anni della concertazione hanno prodotto un arretramento in termini di diritti e salario; oggi più che mai abbiamo bisogno della contrattazione collettiva, per rispedire al mittente il Jobs Act del Governo Renzi, ed evitare che il diktat di Marchionne sia preso come modello da Confindustria. Già nel dicembre del 2012 l’accordo separato di Fim e Uilm ha accettato la riduzione del potere d’acquisto dei salari, ha aumentato l’orario di lavoro, ha introdotto le deroghe e penalizzato il pagamento per i primi tre giorni di malattia. Anche in queste settimane abbiamo avuto un’inspiegabile fuga in avanti di Fim e Uilm che, in barba alla democrazia, hanno avanzato una piattaforma senza che la stessa fosse condivisa dalla Fiom e da tutti i lavoratori (potranno votare soltanto gli iscritti di Fim e Uilm).
A molti forse non é chiaro che la partita che si sta giocando va oltre il “semplice” rinnovo contrattuale basato sull’aumento salariale. Confindustria lavora affinché uno dei due livelli contrattuali venga cancellato. E’ la strategia contenuta nel “memorandum” della Bce del 4 agosto del 2010, che ha indirizzato i vari governi italiani – Monti, Letta e poi Renzi – a mettere mani alla riforma delle pensioni, all’abolizione dell’articolo 18, ai licenziamenti collettivi e, adesso, all’intero assetto contrattuale. “C’é anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva – scriveva nel 2010 la Bce -, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione”.
Il Primo Ministro italiano e il Presidente di Confindustria concordano sul fatto che il sindacato sia stato “un fattore di ritardo tanto per l’efficienza che per competitività complessiva del Paese”. Per Renzi e Squinzi la dignità del lavoro, i diritti, la possibilità di contrattare il salario con la controparte rappresentano “arretramenti” dal punto di vista dell’efficienza e della competitività: scogli che devono essere eliminati. Il ricatto suona così: “Vuoi lavorare? Devi farlo alle condizioni che detta il mercato; d’altronde, che vuoi pretendere? E’ la globalizzazione, bellezza!”
Il rinnovo contrattuale sarà un punto per il quale il sindacato – e la Fiom, in particolare – dovrà battersi insieme ai lavoratori; a questi ultimi spetta il compito di strappare dalle mani di Fim e Uilm la facoltà di decidere un ulteriore rinnovo contrattuale che peggiora le loro stesse condizioni.
La partecipazione sarà determinante affinché si possa cambiare indirizzo. A ottobre partiremo con le assemblee in tutte le aziende; queste saranno aperte a tutti i lavoratori, che saranno chiamati, così come dovrebbe fare un sindacato democratico, ad una consultazione generale, in modo da respingere al mittente chi vuole porre la parola fine al contratto nazionale.
L’autunno che abbiamo di fronte non potrà che porre questi punti al centro dell’ azione sindacale, politica e sociale. In questo senso credo sia importante costruire sui territori una rete capace di fermare le diseguaglianze prodotte dalle politiche di austerità. Abbiamo il dovere di provarci anche a Taranto, mettendo in piedi una “coalizione sociale” che faccia convergere tutte le nostre energie migliori. Si deve lavorare “pancia a terra” per contribuire all’importante giornata di mobilitazione mondiale per “l’eradicazione della povertà”. Il 17 ottobre Libera ha indetto una manifestazione nazionale, “Miseria ladra”, incentrata su quel tema e sulla rivendicazione di un reddito minimo garantito. In quegli stessi giorni, dal 15 al 17 ottobre, il coordinamento Blockupy terrà una serie di iniziative in tutta Europa per rivendicare giustizia e reddito. Partiamo da questi appuntamenti per provare a rilanciare un sano conflitto di classe contro l’Europa dell’austerity.
Fonte: Siderlandia
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