La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 3 novembre 2015

Intrecciare una rete

di Carlo Francesco Ridolfi
Una delle domande più frequenti che ci viene posta, soprattutto dopo occasioni di incontro di grande successo come quella rappresentata dal nostro quinto appuntamento nazionale – L’educazione prende corpo. Imparare in tutti i sensi -, tenutosi a Bastia Umbra gli scorsi 24 e 25 ottobre, è: “Come avete fatto?”.
La risposta più rapida e sintetica, che riassume in una parola sia lo spirito che la sostanza, è: “insieme”. Vorrei però provare a raccontarvi cosa sta dietro questa parola, cioè come si può provare a intrecciare i nodi di una rete.
Il nostro viaggio comincia di solito a gennaio. Ci riuniamo in una ventina di persone– quest’anno è successo a Firenze – per un paio di giorni. Prima facciamo una valutazione del passato recente e, in particolare, dei risultati e dei punti critici emersi nel nostro incontro nazionale.
Poi cominciamo a discutere il piano di lavoro per l’anno che è appena iniziato.
Per il 2015 avevamo individuato tre obiettivi: la realizzazione del sito della Rete di Cooperazione Educativa; l’ampliamento della base associativa; la realizzazione del V incontro nazionale.
Il sito è stato realizzato, in particolare grazie al contributo di Sabrina D’Orsi. Si chiama www.retedicooperazioneeducativa.it e, per quanto sia ancora in fase di costruzione, ha già contribuito sia a far conoscere la Rete, sia a far conoscere a noi nuove donne e nuovi uomini che hanno a cuore l’educazione.
L’associazione ha tenuto la sua prima assemblea annuale lo scorso luglio.
Bastia Umbra è stato un entusiasmante successo di partecipazione, contenuti, emozioni, semi lanciati per il prossimo futuro.
Ma ciò spiega ancora troppo poco.
Da gennaio a ottobre c’è un flusso continuo di comunicazioni – mail, sms, messenger, watsapp, telefonate – fra di noi e, quest’anno ci siamo riusciti tre volte (una a Sestri Levante, una a Padova, una a Soave) alcune riunioni di lavoro di un giorno.
E abbiamo due caratteristiche alle quali teniamo molto e che qui vorrei ribadire e indicare, senza la pretesa né di proporre un modello né di stabilizzare delle procedure standardizzate riproducibili con effetti sicuri.
La prima, che fra noi è emersa dopo non poche discussioni e occasioni di confronto, è che pensiamo che una Rete come la nostra sia non una iniziativa culturale ma un progetto politico. Mi rendo conto che detto così potrebbe sembrare categorico e quasi minaccioso. Naturalmente, non potrebbe essere altrimenti, siamo innamorati e appassionati sostenitori della cultura in tutte le sue espressioni. Leggiamo libri; li scriviamo, anche. Guardiamo film. Ascoltiamo musica, qualcuno la produce. Andiamo a vedere mostre. C’è chi dipinge, chi scolpisce, chi costruisce giocattoli e chi intesse abiti di pregio artistico. Ma non ci convince più l’idea, che molti di noi in passato hanno avuto, secondo la quale l’arricchimento culturale degli individui può contribuire a migliorare lo stato di vita della società.
Non vale il reciproco, è ovvio. Un mondo di ignoranti non è un mondo che può aspirare alla felicità. Tuttavia, per dirla parafrasando una proposizione molto nota e a volte forse abusata: “La bellezza rende migliore il mondo, ma per salvarlo ci vuol ben altro”. “Progetto politico”, dev’esser chiaro, non significa né costituzione in partito, di cui proprio non si sente il bisogno, né architettura di un presunto sindacato di chi ha a che fare con l’educazione (a scuola, ma anche nella vita quotidiana e nella società). Significa, invece, aver ben presente che è necessario e vitale non solo interloquire con i soggetti e i luoghi della decisione, ma fornire loro, in un rapporto dialogico e dialettico continuo, sollecitazioni, idee, proposte concrete, dimostrazione dell’esistenza di pratiche alternative. Questo siamo in grado di fare, proprio perché molti di noi si impegnano quotidianamente nel cercare contenuti, modalità, forme e sostanza di pedagogia critica e di emancipazione.
La seconda caratteristica, che vorrebbe essere indicazione ad una tendenziale coerenza fra ciò che si dice di voler essere e i comportamenti concreti, è checerchiamo, per quanto possibile e per quel che ci riesce, di improntare anche i nostri rapporti pratici all’economia del dono.
Senza scadere nella retorica o nell’irenismo: cerchiamo di apprezzare quel che c’è e non quel che manca, andando alla radice della parola economia e privilegiandone l’etimo che ci rimanda alla casa (oikos) e alla legge (nòmos).
Siamo consapevoli che le risorse sono probabilmente sempre molto scarse. Sappiamo, allo stesso tempo, che da questa parte del mondo c’è anche molto spreco. Cerchiamo, senza velleità pauperistiche né tentazioni millenariste, di operare in termini di solidarietà reciproca e di condivisione.
Scrive Cesare, uno dei nostri primi associati e più grandi amici:
“Credo che ribadire la bontà delle cose che si ascoltano e vedono nel corso degli incontri nazionali della Rete sia quasi superfluo: ormai rodato, il sistema di accoglienza e filtraggio delle proposte è in grado di “scremarle” in modo da apparecchiare il desco con quelle forse più valide, sicuramente più utili rispetto al contesto specifico entro il quale devono agire. Qualcuno non resterà del tutto convinto, come è successo e succederà ancora: può accadere di frequentare un laboratorio senza aver capito bene di cosa si trattasse, può accadere anche di uscirne senza saperne troppo di più di quanto vi si è entrati; sono rischi che si possono, anzi si devono, correre.
Similmente pleonastico insistere sulla freschezza delle relazioni umane, sulla bellezza del ritrovarsi con persone i cui abbracci, al momento del commiato, si sentono ogni volta più sicuri e fraterni; un dato di fatto, una gioia impagabile.
Cosa c’è da dire, allora? Per quale motivo mi sono messo qui a scrivere? Una cosa da dire, e perciò da scrivere, ce l’ho, ed è proprio qualcosa di pelle e di sensazione, e come tale molto discutibile: ma se non stavolta, quando, dato il tema dell’incontro?! Coraggio, quindi.
La percezione, il sentore, che mi ha sfiorato in questi due giorni (magari pure in edizioni precedenti, laddove probabilmente è evaporato troppo in fretta per lasciare tracce) è quello del percolare talvolta nella Rete di una specie di ingenuità: non saprei che altra parola usare, ma questa mi sembra la più adatta perché è una parola ambivalente, specie se presa dal punto di vista etimologico che racconta, molto più che di una beata incoscienza, di una sorgività, di una libertà generatrice. L’ho annusata, questa percezione, non altro che in qualche parola, in qualche gesto, in qualche entusiasmo impulsivo, ovvero in qualcosa che messa in contrappeso con la potenza, la profondità, la febbre di altre parole, altri gesti, entusiasmi più giustificati, non potrebbe che impallidire. Non so se riesco a spiegarmi: da una parte c’è il mondo che è quello che è, e un’educazione che in massima parte lo rispecchia: dall’altra ci sono utopie che ancora debbono essere coltivate con lo stoicismo del piantatore di alberi di Jean Giono, o di colui che in una antica fiaba gli alberi li segava con un filo di avena. Certo, qualcuno dirà: altrimenti non sarebbero utopie. Ma tant’è. Io, ad esempio, mi sono sorpreso a commuovermi davanti all’esercito dei Pacifici non per fiducia ma quasi per sgomento, pensando a cosa ne sarà fra un po’ di anni della spontaneità dei bambini e delle bambine che li hanno partoriti insieme ai loro pensieri; domandandomi se le parole di quei pensieri saranno destinate a diventare polline o polvere.
So bene, e lo confesso apertamente, che il mio disincanto nasce da un’età non più tenera a cui sono approdato da anni e anni di impegno che, per quanto mi riguarda, si è bruciato le ali, ingenue ali fatte di cera: e so bene, quindi, che è sbagliato. In conclusione vorrei così solo auspicare di vedere le ali della Rete diventare sempre più forti grazie alla determinazione delle tante persone che la fanno funzionare, e che tutte quelle che ho il privilegio di conoscere potranno perdonare il mio – assai presumibilmente vano – sfogo di barricadiero sfibrato; il secondo auspicio è accompagnato a una smisurata gratitudine, loro lavorano e sperano anche per me.
Come si può ben vedere, non abbiamo inventato nulla di particolarmente nuovo né originale. Solo, ma con tenacia, cerchiamo di render azione il pensiero che fra di noi è quasi insonne”.
Abbiamo aperto e chiuso l’incontro di Bastia Umbra con le parole di Erasmo da Rotterdam, leggendo qualche breve passo da un suo testo del 1500 che porta il titolo: La guerra piace a chi non la conosce.
Il testo erasmiano fa parte della raccolta degli Adagia, che viene introdotta dalla frase: “Amicorum Omnia Communia”. Nessuno potrebbe dir di meglio.

Fonte: comune-info.net 

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