di Raffaele K. Salinari
Forse per capire il momento delle relazioni tra Unione europea e Turchia bisognerebbe studiare approfonditamente le implicazioni geopolitiche della famosa battuta di Marx (tendenza Grucho): “Non entrerei mai a far parte di un club che mi volesse come socio”.
Un Paese, infatti, con una serie di garanzie costituzionali solide, in merito, ad esempio, al rispetto delle Convenzioni internazionali sui Diritti umani, sulla libertà di stampa, di associazione, delle diversità religiose, con un solido apparato politico che prevede la voce di più schieramenti all’interno della classica tripartizione ed equilibrio dei poteri, ebbene un simile Stato non entrerebbe oggi a far parte dell’Unione europea. Di più: chi ambirebbe a far parte di un Club dove a chi entra siano richieste certe caratteristiche, quali quelle di cui sopra, ed a chi è invece già dentro fosse dato di violarle? Una posizione alquanto debole ed incoerente evidentemente. Infatti, se oggi alla Turchia oggi si chiede, giustamente, il rispetto ad esempio della libertà di stampa, che dire di alcuni membri dell’Unione da cui questa stessa libertà viene sistematicamente violata?
Con che autorevolezza si va ad un negoziato battendo i pugni sul tavolo quando a casa propria ci sono soggetti che addirittura rivendicano posizioni contrarie? Orban insegna.
Con che autorevolezza si va ad un negoziato battendo i pugni sul tavolo quando a casa propria ci sono soggetti che addirittura rivendicano posizioni contrarie? Orban insegna.
Per non parlare delle continue disattenzioni per quanto concerne le Convenzioni internazionali sui rifugiati, richiedenti asilo, sui bambini, e via enumerando. Dunque un quadro che ben si presterebbe, e da subito, a far entrare con tutti i requisiti a posto, la Turchia, dato che all’interno del club Europa ci sono membri che hanno esattamente il suo stesso comportamento. Eppure, anche se la storia non insegna nulla ma è bene ricordarsela, vi è stato un tempo in cui un’altra Turchia, molto più laica ed avviata sulla strada della democrazia non solo formale, bussava alla porta dell’Unione. Un tempo in cui tutta l’Europa era governata da forze socialdemocratiche.
Ma fu tenuta fuori perché, vuoi le radici cristiane, vuoi la necessità di far entrare prima nella Nato e poi nell’Unione i Paesi ex satelliti sovietici, allargando dunque a dismisura i soci ammessi e certo non con le caratteristiche di idoneità, prevalsero sull’idea di un’Unione multireligiosa ed inclusiva di una realtà a cavallo tra Occidente ed Oriente: la vera sfida verso Est che avrebbe dovuto essere completata da quella verso l’inclusione della sponda Sud del Mediterraneo.
Ma la subalternità agli Stati uniti ebbe la meglio e tutto fu costruito sull’esigenza di spargere il sale sulle rovine sovietiche, con una miopia che oggi si svela, se possibile, ancora più tragica.
Da allora il ruolo della Turchia è molto cambiato e la reazione, anche a quel rifiuto, è stata la culla ideologica e politica del governo attuale. Oggi, con i rifugiati alla gola, l’Unione abbozza sul rispetto dei diritti fondamentali e si accontenta magari della riapertura di qualche testata, pur di respingere nelle viscere di oscuri centri di “accoglienza” i rifugiati che premono per far valere i loro diritti, quelli fondativi dell’Unione, non altri.
A questo punto tanto varrebbe ripensare alla radice le regole del club, dato che di esso rimane solo l’obbligo della quota associativa e del rispetto dei parametri economici per restarci dentro; tutto il resto, cioè le ragioni fondative originarie, essendo andate perdute, lavate via dalle onde di immigrati che hanno infine scoperchiato le sue vere fondamenta: quel patto neoliberista che mai e poi mai ha pensato ad un superstato democratico, agli Stati Uniti d’Europa, se non come forma di megamacchina economico finanziaria al servizio della crisi permanente del capitalismo. E dunque il solvente universale dei corpi migranti al fine scioglie la materia dell’Unione e ne distilla, suo malgrado, l’essenza irriducibile.
Fonte: il manifesto
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