La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 18 marzo 2016

Blu, i mostrificatori e le sfumature di grigio

di Wu Ming
La cancellazione da parte di Blu di tutti i suoi murales realizzati a Bologna ha fatto il giro del mondo, com’era prevedibile e ampiamente previsto. Un gesto premeditato e ponderato che ha scatenato un putiferio sui giornali e in rete.
I fatti sono questi.
1) Alcune persone legate al mondo dell’arte, dell’accademia e del restauro, riunitesi in associazione senza fini di lucro, hanno staccato dai muri di edifici privati destinati alla demolizione alcuni murales dipinti da Blu, uno dei più importanti street artist europei, che proprio a Bologna è nato artisticamente.
2) Queste persone hanno messo al sicuro i dipinti e li hanno inseriti nel programma espositivo di una mostra internazionale sulla street art, Banksy & Co, inaugurata a Bologna il 18 marzo (biglietto d’ingresso 13 euro), con il patrocinio di Genus Bononiae. Si tratta di un ente museale finanziato dalla più potente fondazione bancaria cittadina, la fondazione Carisbo. Alla guida di Genus Bononiae è attualmente Fabio Roversi Monaco, ex presidente della stessa fondazione Carisbo, ex rettore dell’università (per quindici anni), già membro della loggia massonica Zamboni-De Rolandis, attualmente al vertice di Banca Imi e Accademia di Belle Arti. Uno che quantomeno dà prova di grande modestia quando dichiara: “Io non sono un potere forte”.
3) Queste persone hanno contattato lo street artist Blu tramite email per spiegargli cosa avevano in mente di fare con i suoi disegni, ma dopo alcuni segnali interlocutori non sono riuscite a ottenere l’abboccamento faccia a faccia che auspicavano. Questo le avrebbe insospettite circa la disapprovazione del disegnatore per quello che stavano facendo, e tuttavia sono andate avanti.
4) La risposta di Blu alla mostra è arrivata una settimana prima dall’apertura ed è consistita nella cancellazione, con una mano di grigio, di tutti i murales da lui dipinti a Bologna nel corso di quasi vent’anni. L’azione è stata accompagnata da un messaggio molto conciso e diretto sul suo blog: “A Bologna non c’è più Blu e non ci sarà più finché i magnati magneranno. Per ringraziamenti o lamentele sapete a chi rivolgervi”.
Il fall out del gesto di Blu ha pesantemente cambiato il contesto nel quale la mostra si colloca. Perché adesso di questa mostra sanno tutti; e perché a prescindere da come si valuti la risposta radicale di Blu, l’opinione pubblica appare decisamente sbilanciata in senso contrario all’operato di Roversi Monaco & co. Insomma la mostra ha acquisito sì grande notorietà, ma negativa. Basti dire che l’apertura al pubblico è avvenuta con le camionette della polizia dall’altra parte della strada, per paura di contestazioni.
I curatori hanno trascorso la settimana precedente l’inaugurazione a rilasciare interviste per giustificarsi. Senza ovviamente poter eludere una domanda: chi è oggi il proprietario di quei disegni?
A quanto affermano i diretti interessati il proprietario è l’associazione stessa che li ha acquisiti, staccandoli dai muri e trasferendoli su un altro supporto. Per statuto l’associazione non può venderli, ma per il resto può disporne: organizzare mostre – che produrranno profitto per qualcuno, tramite la vendita dei biglietti –, cederli a un museo, o limitarsi a conservare le opere, il cui valore è verosimilmente destinato a crescere nel tempo.
Davanti a chi ha fatto notare che tutto questo va in direzione contraria alla finalità per cui quelle opere sono nate – cioè stare in strada e partecipare del destino urbanistico della strada, nella buona e nella cattiva sorte – Roversi Monaco ha risposto che questo non ha alcuna importanza. Infatti i dipinti sono stati realizzati abusivamente su un muro privato, lui può comprare quel muro dal proprietario e disporre di quello che c’è sopra.
Da un punto di vista legale potrebbe pure avere ragione, è così che funzionano i rapporti privatistici di proprietà. È invece dal punto di vista etico, politico, artistico, che tale comportamento ha suscitato sconcerto, perché – per usare una metafora – ha messo il copyright su qualcosa che è nato per non averlo. Del resto, l’atto di nascita del capitalismo è precisamente l’accumulazione originaria, cioè l’appropriazione e recinzione di un bene che fino a quel momento era fruibile da tutti. È quello che sta succedendo agli street artist più famosi, come anche Banksy.
Non per niente dopo l’esplosione del “caso”, grazie al clamoroso gesto di Blu, il patron della mostra Roversi Monaco ha pensato di recuperare, dichiarando che le opere staccate dai muri saranno donate al comune. Al suo buon cuore.
Ancora più interessanti delle giustificazioni dei curatori della mostra sono le argomentazioni di chi ha criticato il gesto estremo di Blu, quello di cancellare tutti i suoi dipinti dai muri di Bologna.
Tanto vale liquidare subito la più stupida, cioè l’accusa di incoerenza perché Blu ha già fatto esposizioni, ha dipinto su commissione, eccetera. Come se il problema fosse che il disegnatore deve vivere d’aria anziché del suo lavoro, e non invece proprio l’opposto, cioè che il disegnatore ha il diritto di decidere cosa fare del proprio lavoro. Può venderlo oppure lasciarlo libero. Nell’un caso e nell’altro la scelta andrebbe rispettata.
Si può passare rapidamente anche sul tentativo di contrattacco dei curatori, secondo i quali Blu fingerebbe di ignorare che la street art è ormai uscita dalla fase contestataria e che è giunto il tempo di musealizzarla, cioè di salvaguardare le opere d’arte in sé, a prescindere da ogni finalità e contesto. Ovviamente sono gli stessi curatori/appropriatori che decidono qual è lo stato dell’arte di strada e anche quale debba essere il suo destino, impegnandosi a realizzarlo.
Un colpo di arte-guerriglia
L’argomentazione più diffusa tra coloro che criticano il gesto di Blu, senza per questo giustificare quello di Roversi Monaco & co, è però un’altra. È comparsa sui forum, sui social network, sui giornali, negli spazi che ospitano discussioni su quanto accaduto a Bologna. L’ha sostenuta Michele Serra dall’amaca, ma come lui anche altri, in varie sfumature, alcune più accese altre più blande.
È riassumibile nella figura retorica del marito che si evira per fare dispetto alla moglie. Serra ha usato un’espressione anche più colorita, affermando che il gesto di Blu “va in culo al popolo”. Insomma quell’avanguardista elitario di Blu avrebbe privato i cittadini bolognesi delle sue opere, facendo scontare alla città la sua ripicca contro i mostrificatori della street art.
Quest’obiezione ha una sua dignità. A patto che si assuma il punto di vista del cittadino virtuoso che vorrebbe vivere in una città più bella, e che non crede di meritarsi un muro grigio al posto di un murale di Blu, ma anzi, vorrebbe più disegni di Blu anziché meno, anziché nessuno. È il punto di vista di chi sta a guardare – absit iniuria –, nel senso letterale di contemplare e apprezzare la bellezza dei murales nel paesaggio urbano.
Al cittadino virtuoso però sfugge un aspetto della faccenda tutt’altro che secondario. E cioè che qui non si tratta di quadri dipinti per le stanze private, ma di street art, appunto; non si tratta di Giorgio Morandi, ma di Blu; non si tratta di un abbellimento estetico, ma di conflitto. Quel conflitto che i curatori della mostra hanno cercato in tutti i modi di negare, che la mostra stessa pretende di negare.
La cancellazione messa in atto da Blu è un colpo di arte-guerriglia, inferto contro la riduzione simbolica della street art nelle gallerie museali e nei curricula degli addetti alla cultura. Se lo si valuta con i parametri della guerriglia è assai difficile metterne in discussione l’efficacia. Basta guardare alle conseguenze immediate che ha avuto, all’angolo argomentativo in cui ha costretto gli avversari, alla figuraccia che ha procurato loro, alla pochezza nelle reazioni degli amministratori locali che ha fatto emergere, alla contraddizione che ha aperto non solo a Bologna, ma in tutto il mondo.
Nella lotta può capitare di sacrificare la bellezza all’efficacia dell’azione. È doloroso, sì, soprattutto se si tratta dell’opera di anni e anni, con la quale abbiamo legami affettivi. Eppure lo si fa nella consapevolezza che senza sacrificare qualcosa non si è mai ottenuto un bel niente, e certo non si è mai segnato mezzo punto contro chi davvero va in culo al popolo.
Forse non sono più i tempi per una riflessione come questa. Forse siamo ormai assuefatti all’idea che il sacrificio di qualcosa che ci è caro, in una lotta, sia retaggio dei fanatici, degli integralisti, dei “cattivi” di turno, o tutt’al più di artisti/scrittori/mestatori che credono che “il ‘77 sia l’altro ieri”. Chissà che proprio per questo il gesto di Blu non risulti ancora più importante e spiazzante. Perché all’improvviso ci ricorda qualcosa che avevamo dimenticato. Ce lo sbatte in faccia con la forza di un muro grigio, o di una bomba senza morti. Non è l’opera d’arte che importa. Ma la vita e le relazioni che ci stanno dietro e che ancora sfuggono all’assimilazione alle logiche dominanti. La vita che resiste. E a volte perfino insorge.

Fonte: Internazionale 

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