di Giovanni Battista Zorzoli
L’ipocrisia di cui è intrisa la parola peacekeeping sta già nella scelta di legittimarla sulla base di un’interpretazione da alcuni benevolmente definita «estensiva» del capo VI della Carta dell’ONU, che in realtà si occupa soltanto della soluzione pacifica delle controversie. Tanto che altri commentatori preferiscono eufemisticamente parlare di creazione di un «implicito capo VI e mezzo della Carta».
Per anni i trattati europei si sono tenuti alla larga dall’argomento, ma con quello di Amsterdam del 1997 si è ritenuto opportuno mettere un cappello pacifista alle operazioni militari nella ex-Jugoslavia. L’art. J.7.2 stabilisce infatti che, tra i compiti di politica estera e di sicurezza comune, rientrano «le missioni umanitarie e di soccorso, le attività di mantenimento della pace e le missioni di unità di combattimento nella gestione delle crisi, ivi comprese le missioni tese al ristabilimento della pace».
L’elenco dei compiti non è casuale, riproduce la casistica che, nel linguaggio burocratico dell’ONU, distingue tra «preventive diplomacy», «peacemaking», «peace-keeping» e «post-conflict peace-building»: «missioni tese al ristabilimento della pace» è infatti la traduzione in euroburocratese di peacemaking, con una sequenza di parole che esplicitamente autorizza l’uso della forza.
Questa escalation dell’ipocrisia sembra non avere limiti. Senza arrossire, oggi si annuncia l’intenzione di inviare in Libia, naturalmente sotto l’egida dell’ONU, unità militari con funzioni di peacemaking, cioè, almeno sulla carta, per mettere fine al caos creato dall’intervento bellico effettuato nel 2011 dagli stessi paesi (Francia e Regno Unito, ma in tono minore anche Italia) che adesso dovrebbero tornarvi per riportare la pace.
Quando non si riesce a trovare le giustificazioni formali per indossare la foglia di fico del peacekeeping, si procede comunque con «interventi» in genere motivati da esigenze di sicurezza. Così è stato ad esempio per l’intervento sovietico e, successivamente, americano in Afghanistan o per quello, sempre degli USA, in Iraq, ma, andando più indietro nel tempo, si potrebbero ricordare l’occupazione anglo-francese del canale di Suez (1956) e le due invasioni sovietiche dell’Ungheria (1956) e della Cecoslovacchia (1968) a difesa del «campo socialista».
Qualunque fosse la giustificazione prescelta, non ricordo impresa militare che, dopo il 1945, sia stata preceduta da una formale dichiarazione di guerra. L’attacco giapponese a Pearl Harbor, allora esecrato perché violava le regole del gioco, è diventato la norma universalmente accettata.
Questo stravolgimento dei labili, ma entro ceri limiti efficaci precetti del diritto internazionale ha prodotto realtà che superano la fantasia degli scrittori di fantapolitica. In effetti non era facile immaginare un’area relativamente ristretta (Siria e Iraq settentrionale), dove contemporaneamente gli americani hanno bombardato per mesi le zone occupate dall’Isis, i russi quelle sotto controllo dei ribelli anti-Assad e i turchi là dove si trovano i curdi.
Inaspettata, ma forse inevitabile, è sopraggiunta la parallela trasformazione della guerriglia. Un tempo classico strumento di contrasto all’esercito nemico all’interno di un paese invaso, oggi la guerriglia è diventata transnazionale. Colpisce il nemico dovunque riesce a farlo. Dov’è possibile, come in Nigeria, anche con l’occupazione temporanea di una ristretta zona del paese; di norma, con attentati. E, come accade nelle parallele guerre non dichiarate, le vittime sono prevalentemente civili.
Di conseguenza, il regime di non pace si sta progressivamente allargando e arriva a coinvolgere anche paesi non direttamente colpiti da attentati. In Italia ci siamo abituati a trovare normale la presenza di militari con l’arma spianata in ogni stazione di metropolitana e davanti a qualsiasi edificio considerato obiettivo sensibile. A starsene almeno un’ora in coda per sottoporsi ai controlli imposti per entrare a San Pietro, in occasione di un Giubileo annunciato «senza barriere». Abbiamo rinunciato al piacere di accogliere una persona cara sul marciapiede dove è in arrivo il suo treno (in alcuni paesi anche l’accesso dei viaggiatori è sottoposto agli stessi controlli in vigore negli aeroporti). Altrove – Francia docet – si sono introdotte limitazioni ai diritti dei cittadini.
Ad aggravare le tensioni, in USA e in Europa si costruiscono barriere fisiche, ma anche politiche e culturali, per bloccare l’arrivo di disperati che fuggono dalle guerre non dichiarate, di cui siamo direttamente o indirettamente responsabili.
Difficile dire se e quando finirà la nottata. Le guerre non dichiarate impediscono la firma di trattati di pace che impegnino le parti in lotta.
Fonte: Alfabeta2
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