di Luca Sappino
Forse non è giusto parlare di una vera e propria inversione, perché anche nel 2011 suireferendum su acqua pubblica e nucleare il Pd ondeggiò almeno un paio di volte, prima di dare indicazione ai suoi elettori di votare sì. Non raccolse le firme, almeno non ufficialmente il partito di Pier Luigi Bersani, e solo la scelta delle dirigenze locali spinse molti circoli a fare i banchetti insieme ai movimenti che componevano il comitato referendario. Ma le polemiche sulla legge sulla gestione dell’acqua, appena uscita dalla commissione ambiente, e quelle interne al Pd sul referendum sulle trivelle, raccontano sì una mutazione politica.
Proponendo infatti l’astensione sul referendum del 17 aprile («chi l’ha deciso?», è stata peraltro la reazione della minoranza dem, guidata da Speranza) il Pd di Matteo Renzi si dice favorevole alle trivellazioni in mare, e, prima modificando e poi fermando la legge che le opposizioni avevano presentato per concretizzare quanto stabilito nel 2011 in fatto di gestione dell’acqua, ha fatto capire che la linea non è più quella assunta pur timidamente dal segretario Bersani, spinto dal successo della campagna referendaria.
La linea invece è semmai quella dell’allora sindaco Renzi che - forse anche lui più attento all’opinione dei comitati locali - disse di votare sì tanto contro il nucleare quanto per la definizione dell’acqua come bene comune, ma disse di votare no sulla retribuzione degli investimenti. L’acqua è un bene comune, va bene, ma va gestita come dice il mercato, era ed è la posizione di Renzi.
Posizione che il segretario e premier ha applicato tanto al partito quanto al governo. La mutazione si coglie bene andando a ripescare la copertina che fece l’Unità, il giornale del Partito democratico, il 14 giugno 2011, il giorno dopo il referendum.
Direttore era allora Concita De Gregorio, e a destra della testata c’era la pubblicità dell’ultimo libro di Bersani, “Per una buona ragione”. Un’epoca fa. Un mosaico di foto di elettori sorridenti, che esibivano fieri la tessera elettorale, faceva da sfondo a un enorme titolo: “Sì. Buongiorno Italia”.
Nel giorno in cui il comitato referendario denuncia l’attacco all’acqua pubblica, a cinque anni da quel voto, invece, su l’Unità riportata in edicola da Renzi, il direttore Erasmo D’Angelis scrive: «Non ha più senso la demagogia del bene comune». Quell’impostazione demagogica per D’Angelis, dunque, «non fa i conti con la realtà concreta di una Italia» dei «2500 comuni fuorilegge per scarichi di reflui non collegati a deputatori o fognature e che ammorbano fiumi, torrenti, laghi o mare».
Gli argomenti usati da D’Angelis sono gli stessi di chi all’epoca si opponeva al referendum. «Abbiamo una rete che ha in media 40 anni di vita e perde il 37 per cento di risorsa», dice D’Angelis: «C’è bisogno di uno scatto, di mettere in cantiere nuove opere strategiche e inter-generazionali», c’è bisogno dunque di privati, perché «le risorse che occorrono per colmare gravi deficit infrastrutturali sono enormi».
«Lasciamoci alle spalle l’approccio simbolico o metaforico o filosofico», è la stoccata lanciata alla sinistra che ritenuta evidentemente velleitaria, «perché non ha più molto senso continuare a confondere acqua con tubi, risorsa con gestioni, gestioni messe a gara ad evidenza europea con privatizzazioni senza scrupoli, e vedere nemici là dove non ce ne sono». Propone la sua verità, il direttore dell’Unità, di stretta fede renziana.
Dopo aver denunciato la comunicazione «emotiva», dei «buoni contro i cattivi», usata dal comitato per l’acqua nel 2011, D’Angelis scrive che «tutta l’acqua superficiale e sotterranea, tutti gli impianti e le reti sono beni pubblici inalienabili per legge» ma che «se il buon Dio ci ha donato questa risorsa ha dimenticato acquedotti, reti e depuratori». E allora «ci dobbiamo pensare noi ed è illusiorio credere di poter tornare al passato quando tutto finiva nel pozzo della fiscalità generale e tutto pesava sui conti pubblici e quindi sulle nostre tasche in forma di tasse o tributi».
Dal Movimento dell’acqua pubblica non si dicono stupiti di questa posizione («Il Pd si illude che chi votò per i referendum ora se ne resterà silente», dice l’attivista Marco Bersani, notando che anche nel 2011 il Pd aspettò di misurare la mobilitazione), ma per un pezzo dell’elettorato Pd non è ancora chiaro. Raccoglie un sentire diffuso Michele Serra che su Repubblica si chiede se il Pd sia «a favore o contro la nuova autostrada in Maremma? A favore o contro le trivellazioni in Adriatico alla ricerca di idrocarburi? A favore o contro la gestione pubblica della rete idrica?», perché «l’impressione è che non sia a favore né contro».
A Serra e agli elettori dem risponde il deputato ex Pd Pippo Civati: «Il Pd è a favore delle nuove autostrade (non solo in Maremma, le ha messe dappertutto), è a favore delle trivelle (astensione significa boicottare il referendum, caro Serra, ricorda Craxi e Ruini?), a favore di una gestione meno pubblica dell’acqua rispetto al sì referendario di cinque anni fa.
Lo sappiamo già, ci sono le prove e ci sono le leggi già approvate». «Serra però ha ragione», continua Civati, «nel programma elettorale che lui aveva votato, la posizione era diversa, in alcuni casi contraria, ma far finta di non saperlo non aiuta». Sulle trivellazioni, in realtà, non ci sono posizioni storiche del Pd che Renzi starebbe tradendo. Certo in tutti i programmi elettorali si diceva di voler rinunciare al petrolio e alle risorse fossili per puntare su solare e eolico e molti presidenti di regione, come Emiliano in Puglia, hanno vinto anche dicendosi contro le trivellazioni e promuovendo il referendum. Ma il Pd ha votato in parlamento la norma che il referendum vuole superare, e il dibattito che si è acceso nel partito per questo è sul fatto che la linea imposta da Renzi, quella dell’astensione, è una novità per il partito storicamente inteso, per il Pci-Pds-Ds-Pd che mai ha proposto così di disertare le urne. È questo, più che la volontà di rinnovare le concessioni alle piattaforme, che non gradisce la minoranza dem.
E se Romano Prodi fa sapere attraverso Affaritaliani che lui se dovesse votare voterebbe no, perché rinunciare all’estrazione sarebbe «un suicidio nazionale», Roberto Speranza battibecca così, appunto, con il capogruppo Ettore Rosato. «Chiederò al Pd di cambiare posizione sulla vicenda trivelle, è inaccettabile immaginare un grande partito, il più grande del Paese, che invita i cittadini all'astensione», dice Speranza in vista della direzione di lunedì. «È un referendum inutile, costoso e che non si poteva abbinare alle amministrative» gli Ettore Rosato.
Fonte: L'Espresso online
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