di Lorenzo Guadagnucci
Nei giorni successivi agli attacchi di Parigi del 13 novembre abbiamo imparato a conoscere Molenbeek, città-quartiere all’interno della città-Stato di Bruxelles, dalla quale provenivano alcuni degli attentatori. È stata descritta in molti modi, sempre focalizzando l’attenzione sulla sua natura cosiddetta “multietnica”, un’espressione che dice sempre meno, in un’Europa che ha smesso d’essere “monoetnica” ormai da alcuni decenni (se mai lo è stata davvero, probabilmente no). Molenbeek in quei giorni tesi, più che per la sua composizione “etnica” (aggettivo usato come pudico sostituto di “razziale”), meritava in realtà d’essere osservata con attenzione per una ragione diversa. Erano i giorni del coprifuoco, della caccia al jihadista sfuggito alle reti di polizia, del timore -secondo le autorità- di nuovi attentati.
Molenbeek era il centro del mondo, presidiato da poliziotti e militari, con i suoi check point, le scuole chiuse, i cecchini sui tetti, le strade semideserte e gli spettacolari blitz condotti in favore di telecamera a dispetto dei magri risultati raggiunti.
Erano giorni speciali, legati a un’emergenza imprevedibile, ma Molenbeek rappresentava in quel momento l’archetipo della città-ghetto, o meglio ancora un luogo esibito come simbolo del pericolo nascosto nelle “nostre città”, dove per nostre, naturalmente, va intesa quell’astrazione che rimanda al tempo di un’Europa “monoetnica” (cioè senza immigrati, senza seconde e terze generazioni di immigrati e anche senza profughi o aspiranti tali) e quindi all’idea mitica di una città, diciamo così, senza intrusi. Molenbeek è diventata suo malgrado il parafulmine delle ansie e delle manipolazioni tipiche di questa stagione triste e pericolosa della vecchia Europa.
È tornato così d’attualità il tema della città infetta, della metropoli come luogo e fonte di violenza, quindi origine della corruzione diffusa in una società che sarebbe altrimenti -secondo la tesi implicita nel ragionamento- spontaneamente sana. Federico Tomasello ha pubblicato di recente un libro -“La violenza. Saggio sulle frontiere del politico” (Manifestolibri)- nel quale affronta il tema delle rivolte urbane. Dai disordini nelle banlieues francesi (2005) ai “riots” nell’area Nord di Londra (2011), passando per altri casi più remoti nel tempo o meno conosciuti, Tomasello propone un’analisi originale del fenomeno, una sorta di terza via fra chi lo qualifica semplicemente come criminale e chi gli attribuisce precisi significati politici, anche oltre le intenzioni e le affermazione dei protagonisti. Per Tomasello le rivolte violente sono un fenomeno sociale dell’ambiente metropolitano e come tale andrebbero trattate. In un passo del libro, Tomasello descrive i riots come “sfondamento delle frontiere”, a volte fisiche a volte simboliche, che caratterizzano lo spazio urbano. Frontiere rese invalicabili dalla segregazione fisica, da quella sociale, da condizioni strutturali dei mezzi di trasporto, dall’esilio esistenziale che colpisce larghe fasce di popolazione.
A Molenbeek, ecco il punto, è andata in scena un’ipotesi di interpretazione della condizione metropolitana contemporanea -la pericolosità dovuta alla sua composizione demografica- e un possibile modo di affrontarne la supposta pericolosità, ossia la militarizzazione dello spazio urbano. Il presidio del territorio, in quei giorni di novembre, era esasperato dall’emergenza seguita agli attentati di Parigi, ma un coprifuoco strisciante permanente è la proposta implicita che ne deriva. Se questa sarà la scelta che faremo a Bruxelles come a Parigi, a Londra come a Roma, cresceranno a dismisura le frontiere interne alle città, quindi i confini da spezzare e i “riots” metropolitani con i quali fare i conti.
Fonte: Altreconomia
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