di Enrico Comini
Il saggio “Come siamo cambiati” di Roberta Carlini rappresenta un significativo tentativo di analisi della società italiana odierna. Nel libro l’autrice affronta e analizza i principali cambiamenti sociali che caratterizzano l’Italia degli ultimi anni.
L’intento è quello di “sondare” i principali mutamenti sociali dovuti, in gran parte, alle conseguenze della crisi economica post-2008. Il paragone con gli anni antecedenti alla Grande Crisi pone il lettore dinanzi a una realtà complessivamente peggiorata. Nuove problematicità avanzano e vecchi fattori di crisi della società italiana tendono ad aggravarsi.
Roberta Carlini, discostandosi dalle tradizionali analisi economico-sociali, soprattutto nella scelta dei temi, dà al suo saggio quell’ampio respiro necessario che permette di cogliere gli effetti molteplici e di lungo periodo di una crisi sistemica. Pertanto ha complessivamente scelto di omettere tutto ciò che ha un’ ampia eco mediatica: la “generazione perduta”, la disoccupazione, alcune emergenze sociali…
Viceversa, l’inchiesta si focalizza su tendenze che hanno e avranno effetti sociali di lungo periodo: calo della natalità, matrimoni e separazioni, il cambiamento dei consumi, l’università e le diseguaglianze sociali.
Il comune denominatore del lavoro dell’autrice è la forte aderenza alla realtà, senza facili trionfalismi, né, tantomeno, profezie di catastrofi imminenti. La lettura attenta dei mutamenti sociali in Italia fa emergere alcuni problemi endemici non secondari che si sono aggravati negli ultimi anni. È da notare come la crisi non abbia quasi mai rappresentato l’origine di nuovi problemi; essa ha semmai aggravato le tendenze esistenti.
Per rendere il saggio il più “appetibile” possibile, l’autrice ha sapientemente coniugato i pur necessari dati “tecnici”, rilevatori del malessere sociale negli anni della recessione a numerose storie di persone “in carne ed ossa”, racconti di vita che sono esemplificativi di quei fenomeni collettivi che intendeva porre all’attenzione del lettore. In questo modo il saggio diventa narrativo.
La parte narrativa da un lato fa toccare con mano il vissuto umano dei diretti interessati, persone comuni che affrontano diverse difficoltà, ma sullo sfondo incombe il medesimo scenario di crisi.
Una tra le piaghe più gravi per il futuro del Belpaese che Roberta Carlini individua, è il basso, e per giunta in calo, tasso di natalità. La bassa natalità costituisce una tendenza che contraddistingue il nostro paese da almeno quattro decenni. Il crollo delle nascite ha conosciuto due fasi: la prima coincidente con la fine del baby boom, con la crisi della famiglia nucleare a partire dalla seconda metà degli anni ’60. Il calo delle nascite fu considerevole e toccò il minimo nel 1995. Dopo quell’anno, soprattutto per la presenza di un maggior numero di madri potenziali (il picco massimo delle nascite è stato raggiunto nel 1964) nate negli anni conclusivi del baby boom, c’è stata una leggera inversione di tendenza. Si parlerà di “baby ripresina”.
Ma la diffusione, specialmente tra i giovani adulti, del precariato negli anni 2000 e la crisi del 2008 hanno portato a un drammatico calo delle nascite (-10% dal 2008 al 2014). In assenza di politiche pubbliche adeguate il tasso di natalità conoscerà un ulteriore, serio calo. E pare improbabile che il sempre maggiore gap tra una platea in crescita di anziani e un numero sempre minore di giovani possa essere colmato dai flussi migratori verso il nostro paese. Ciò rappresenta un grave problema sociale per la tenuta del welfare State e del sistema pensionistico.
L’autrice affronta il tema del crollo della natalità anche intervistando alcune future madri presso una struttura ospedaliera napoletana. Dalle interviste si coglie la sempre maggiore difficoltà della decisione di mettere al mondo un figlio. La precarietà e l’incertezza circa il futuro, fenomeni acuiti negli ultimi anni, rappresentano i principali elementi che hanno portato troppe donne italiane a rinviare in avanti nell’età (o di rinunciare del tutto) ad avere un bambino. Dati alla mano, la crisi economica non ha colpito indistintamente tra i sessi: gli uomini sono stati i più colpiti. Ma, di converso, gli effetti sono ricaduti sulle famiglie e sulle donne, ritrovatesi con un marito disoccupato. Le donne, con il loro lavoro, sono diventate sempre più spesso le bread-winner della famiglia, contribuendo al sostentamento economico della medesima, poiché uniche lavoratrici. La crisi economica ha determinato un notevole cambiamento nelle famiglie anche per quanto riguarda il ruolo delle donne nel mondo del lavoro italiano: le famiglie con una donna bread-winner sono 2,4 milioni, con un aumento del 25% in un solo lustro, a partire dal 2008.
Come già accennato, infatti, la crisi ha colpito maggiormente i lavoratori maschi, non per una discriminazione “al contrario”, ma perché gli effetti devastanti sull’economia reale della recessione hanno avuto luogo soprattutto in quei settori a tradizionale occupazione maschile: l’edilizia e l’industria pesante.
Così si spiegano i dati per cui se l’occupazione maschile è calata di 5,5 valori percentuali dal 2008 al 2014, nello stesso periodo quella femminile si è contratta di “solo” dello 0,5. Di conseguenza si è ridotto, anche se in un contesto di complessiva calo della forza lavoro, il gap di genere nell’occupazione. Tale tendenza si è riscontrata, anche se in termini minori, negli altri paesi UE e negli USA. Nell’attenta analisi dei dati ISTAT, l’autrice sottolinea come la recessione abbia colpito più in termini generazionali che di genere.
Il gap generazionale si manifesta nella disparità in termini di trattamento economico, sicurezza del lavoro e prospettive che caratterizza due generazioni distanti solo venti anni di nascita tra loro, ovvero la generazione che ha compiuto trent’anni a inizio anni Novanta e quella che i trent’anni li ha compiuti nel bel mezzo della Grande recessione. I dati sono impietosi: se nel 1993 bastava il reddito totale di sette anni di lavoro perché un giovane acquistasse la prima casa, nel 2012 si è saliti a dodici anni; nello stesso lasso di tempo la ricchezza posseduta dai giovani italiani si è sostanzialmente dimezzata, l’occupazione è calata di cinque punti percentuali e la riduzione del guadagno tra le due generazione è stata del 25% . Inoltre è raddoppiata la percentuale di giovani entrati nel mercato del lavoro con un contratto atipico e oltre il 35% dei giovani ha dovuto accettare un lavoro dove erano richieste qualifiche inferiori al titolo posseduto.
Oltre a queste considerazioni sono sotto gli occhi di tutti i dati drammatici inerenti alla disoccupazione giovanile con, in questo caso, una penalizzazione di genere a danno delle giovani donne. Nonostante la permanenza di una minore presenza femminile nel mercato del lavoro italiano rispetto ai grandi paesi dell’Unione Europea, specie quelli nordici, il contributo femminile nelle entrate delle famiglie italiane sta sempre più diventando determinante per “sbarcare il lunario”. Pare che il tasso di attività femminile, dato che include coloro che lavorano o che stanno cercando, sia in costante aumento, al contrario di quello maschile. Tale tendenza porta all’effetto paradossale di un parallelo aumento sia dell’occupazione che della disoccupazione femminile.
Per quanto riguarda la “qualità” dell’occupazione femminile si assiste a un’interessante tendenza che sommariamente si potrebbe definire di “cetomedizzazione”: da un lato da qualche decennio molti lavori tradizionalmente maschili, anche ad alta qualifica, non sono più preclusi alle donne, dall’altro la “tenuta” del lavoro femminile durante la Crisi ha aggravato le disparità soprattutto nel lavoro maschile.
L’Economist ha recentemente parlato dell’uomo come del “sesso debole” poiché “senza lavoro, senza famiglia e senza prospettive”. Gli uomini senza o con bassa qualifica sono le principali vittime della deindustrializzazione e dell’automazione dei processi produttivi. Le donne, che lavorano soprattutto nel settore dei servizi, hanno quindi conosciuto meno direttamente gli effetti delle crisi industriali e ciò sembrerebbe confermato dai dati occupazionali.
Viceversa, gli uomini sono sempre più distribuiti ai due estremi della scala sociale: dai manager a una vasta platea di lavoratori poco qualificati espulsi dal mercato del lavoro. E per un uomo, un periodo lungo di disoccupazione è socialmente più difficile da accettare e psicologicamente più arduo da affrontare.
Un altro fattore di crisi del Sistema-Italia di questi anni riguarda il costante calo di matrimoni (-25% dal 2008 al 2014), non solo i matrimoni religiosi, ma anche prendendo in considerazione quelli celebrati in comune. A fronte del calo emerge però un elemento apparentemente positivo: negli ultimi anni sono in calo le separazioni, seppur solo lievemente. Tale tendenza non deve però trarre in inganno: la famiglia è un’istituzione ancora, e sempre più, in profonda trasformazione ed è in declino, almeno se si considera la “solidità” della coppia; le coppie italiane si separano di meno per incapacità a sostenere i costi, elevatissimi, specie per gli uomini, che la separazione rappresenta, dalla fase “legale” al mantenimento del partner e dei figli. Le separazioni e i divorzi stanno così diventando sempre più un diritto per pochi: una fascia in crescita non si può permettere una separazione e perciò non la ufficializza in termini legali.
Non si possono esulare i temi della famiglia, del matrimonio e delle separazioni, da quello della “scala sociale”. In Italia se l’”ascensore sociale” era già fragile prima della crisi economica, ora si può affermare che si è bloccato. Negli ultimi anni il ceto medio ha conosciuto una forte compressione con un generale scivolamento verso il basso della scala sociale. Roberta Carlini ha così avuto modo di analizzare in che termini la crescente povertà ha avuto effetto sui consumi.
Si possono individuare tre macro-fasce di consumatori: una fascia di famiglie a basso reddito, o impoverite notevolmente dalla crisi, che si sono “rifugiate” a fare acquisti pressoché solamente nei discount, con una qualità dei prodotti spesso molto bassa. Da notare come il settore dei discount abbia visto un boom negli anni della crisi, estendendo la sua presenza anche laddove prima non esisteva, cioè nel Mezzogiorno. Una seconda fascia è quella media, della maggior parte dei consumatori, che hanno generalmente contratto la spesa per consumi anche in quei settori tradizionalmente solidi e identitari del consumatore italiano: il “buon mangiare” e il “buon vestire”. Infine, tra i più abbienti si è registrato un lieve calo dei consumi, soprattutto a partire dal 2011/2012. Se complessivamente il calo dei consumi durante la recessione ha riguardato tutte le classi sociali, seppur con un più forte rilevanza nei ceti più bassi (-10% tra gli operai e -6% tra i dirigenti), si è riscontrata un’eccezione positiva: i pensionati, che a fine 2013 erano l’unica categoria che non aveva ridotto i consumi. Questo dato si spiega con la già bassa propensione al consumo dei pensionati, con una spesa non ulteriormente comprimibile a fronte di una bassa pensione e, soprattutto, per la funzione di welfare familiare che i pensionati rappresentano nel finanziare figli e nipoti, magari in difficoltà per la crisi economica. I pensionati costituiscono così l’ultimo “fortino” del modello italiano del Secondo Dopoguerra: entrate fisse, casa di proprietà e risparmio. La propensione al risparmio, cioè il tipico “piglio” prudente delle famiglie italiane, si è sostanzialmente dimezzata dal 2008 al 2012. I risparmi sono stati intaccati e sempre più famiglie (dal 2% ante 2008 al 7%) ricorrono al prestito per consumare. A partire dal 2013 si assiste a un cambio di fase: se nei primi anni di crisi le famiglie avevano consumato, anche se un po’ meno, anche intaccando i risparmi, dal 2012-3 i consumatori italiani hanno ridotto sensibilmente i consumi aumentando contemporaneamente i risparmi. Quest’ultimo fenomeno si spiega con la volontà di conseguire un buon risparmio per far fronte ad un futuro incerto.
Per quanto concerne il cambiamento dei consumi negli ultimi anni si è registrato complessivamente un calo che ha investito anche un settore per sua natura stabile come quello alimentare. Nel 2013 il 65% delle famiglie italiane aveva ridotto le spese alimentari rispetto alla fase precedente alla recessione. In realtà se ci si focalizza sul settore alimentare, negli ultimi anni si sono sempre più affermate nuove preferenze dei consumatori italiani, come dimostrano i dati: crescita del cibo biologico, del cibo etnico, del luxury e del cibo senza glutine. Con la recente esplosione della food-mania, assecondata e amplificata dai mass media, i consumi alimentari sono cambiati, forse in meglio: si può parlare di una maggiore sobrietà, di un’attenzione alla salute, di una maggiore sensibilità ambientale e curiosità culturale.
Roberta Carlini si sofferma anche sullo stato di salute dell’università italiana. La lettura dei dati sul calo delle immatricolazioni e sulla fuga all’estero di diplomati e laureati costituisce la cartina di tornasole di un paese che ha disinvestito per anni nella pubblica istruzione, nell’università e nella ricerca. Oltre agli erronei tagli statali volti al mondo della conoscenza, anche (e soprattutto) il sistema produttivo italiano non può esimersi dalla colpa del mancato investimento in ricerca. Soffermiamoci all’ambito prettamente universitario, si nota come l’anomalia italiana non sia rappresentata solo dal basso numero di laureati sul totale della popolazione, ma anche da un calo di matricole dall’inizio della crisi. Caso unico in tutta Europa, dove, a fronte di una maggiore difficoltà a trovare lavoro, il numero delle matricole è progressivamente salito. Come noto, all’iscrizione universitaria concorrono diversi fattori, come il background sociale e culturale della famiglia di origine, che esulano dalle pur necessarie motivazioni personali e dalla passione nello studio. Tale elemento è indice di diseguaglianza sociale, e, se non preso in considerazione, rischia di portare ad una sorta di immobilismo sociale. Dove la crisi ha colpito più duramente e dove il tasso di disoccupazione è drammatico, cioè nel Mezzogiorno, si è registrato il maggior calo di immatricolazioni dei diplomati. L’autrice è andata però a indagare che tipologia di studente ha rinunciato a iscriversi all’università: si tratta di giovani provenienti da famiglie a basso reddito, con un basso titolo di studio dei genitori e magari provenienti da zone geografiche svantaggiate. Inutile precisare che non è partendo dai tagli al diritto allo studio, come sistematicamente attuato negli ultimi anni, che si può affrontare di petto il problema dell’abbandono di massa dall’università. Si sta delineando così il pericolo che la laurea diventi sempre più un fattore ereditario, una realtà che “fa a pugni” con la retorica della meritocrazia sbandierata da più parti. Inoltre l’elemento ereditario tende ad approfondire le diseguaglianze anche in un altro senso: la scelta della facoltà e il futuro lavoro. Infatti, dati alla mano, coloro che hanno almeno un genitore laureato sono maggiormente portati a immatricolarsi a facoltà come farmacia, medicina, giurisprudenza e molto meno a professioni sanitarie, studi politico-sociali e facoltà umanistiche.
La crisi del 2008, benché abbia rappresentato l’inizio di un periodo in cui le diseguaglianze si sono ulteriormente estese, ha assunto una gravità tale da riaprire, dopo decenni di affermazione totale dell’immaginario neoliberista, il dibattito sulle diseguaglianze sociali. Da un lato è stato riscoperto il pensiero economico di Keynes, dall’altro nuovi economisti, come Piketty, hanno concentrato i loro studi e le loro “fatiche letterarie” denunciando le diseguaglianze ed evidenziando il profondo nesso tra obiettivi sociali ed economici. La strategia economico-politica per far uscire un paese come il nostro da uno stato di, pare, perenne stagnazione non può pertanto prescindere da una riduzione delle disparità sociali.
Infine l’autrice estende il discorso delle disparità mettendo in luce un problema sociale emerso dalla contestuale compressione del welfare state e del reddito: la povertà estrema. Racconta della difficoltà di accesso a cure sanitarie indispensabili come quelle odontoiatriche. Nel campo dell’odontoiatria in Italia siamo in presenza di una storica assenza dello stato, con il conseguente carico oneroso per le famiglie nel ricorrere a prestazioni odontoiatriche basilari: le visite degli italiani dal dentista sono calate di un terzo in un decennio. Una così grave assenza dello Stato nell’ambito dentale è una peculiarità tutta italiana, considerata la forte presenza pubblica nei maggiori paesi UE: solo il 5% dell’odontoiatria italiana è pubblica, ma, in questo pur limitato segmento di prestazioni, non riesce più a coprire la fascia di popolazione che rientra nella povertà estrema. La causa di ciò è determinata dal costo troppo ingente dei ticket sanitari. Così stanno sorgendo su base volontaria centri di odontoiatria base per far fronte soprattutto a quelle emergenze che, se non curate, rischiano di portare alla morte un paziente, come purtroppo già successo per un “banale” ascesso.
Forse è proprio nel rinvio delle spese legate alla salute che si può leggere la gravità della recessione.
Come siamo cambiati rappresenta uno stimolo per conoscere in maniera più approfondita la realtà del nostro paese. Sarebbe auspicabile che le tematiche che Roberta Carlini solleva siano oggetto di discussione politica, specie nelle forze di sinistra. Il dibattito sulla realtà economico-sociale italiana, sulle cause e sulle possibili risposte politiche alla stagnazione economica, potrebbe sia elevare il dibattito, spesso autoreferenziale, tra le forze politiche, sia attenuare la crisi della rappresentanza che allontana sempre più i cittadini dalla politica, poiché percepita come distante dai problemi “concreti” della collettività.
Fonte: Pandora Rivista di teoria e politica
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