di Marco Bersani
Se una persona guardasse oggi l’insieme di coloro che, a vario titolo e spesso litigando fra loro, si candidano a guidare il governo della città di Roma, non potrebbe che rimanere basito. Soprattutto se lo confrontasse con la complessità di una città attraversata da un modello urbano dall’espansione fuori controllo, da poteri forti che ne determinano concretamente le dinamiche, da una rete di relazioni politico-criminali, scoperchiate dall’inchiesta Mafia Capitale. Quella persona non sa come, in realtà, dentro la città stia avvenendo una grande lezione di pedagogia di massa, di cui la mediocrità della futura compagine di governo è elemento essenziale.
Serve a spiegare che chiunque può aspirare a fare il sindaco di Roma, perché tanto la politica ha da tempo abdicato alle sue funzioni, grazie al combinato disposto di due elementi: il debito finanziario e il commissariamento della vita sociale.
Il debito di Roma viaggia oggi sulla cifra di 13,6 miliardi e il conseguente “piano di rientro” disciplina tutte le scelte economiche e sociali relative alla città fino al 2048: tagli ai servizi, riduzione degli stipendi, privatizzazioni, dismissione del patrimonio pubblico, messa a disposizione del territorio per i grandi interessi finanziari.
Poiché la gestione del debito è stata assunta come dato tecnico indiscutibile e il suo pagamento come colonne d’Ercole invalicabili, la gestione della città non può che trasformarsi in un’unica, grande operazione di disciplinamento di massa, basata sul principio di come l’espropriazione di tutta la ricchezza sociale non possa essere accompagnata da concessioni sul piano della democrazia.
La gestione commissariale e prefettizia della città di questi mesi è dunque il secondo tassello di questa lezione di pedagogia. Lungi dall’avere il compito di traghettare la città dalla caduta della giunta alle prossime elezioni, la gestione del commissario Tronca è in realtà un laboratorio costituente di un nuovo modello di città: da qui la sottrazione “tecnica” del diritto di sciopero (non si possono disturbare i “grandi” eventi), del diritto a manifestare (non si può fermare la città); da qui lo stravolgimento del concetto complesso di legalità e l’attacco sistematico a tutti gli spazi autorganizzati ed autogestiti della città. Perché a Roma, nella legalità si può devastare il territorio e consegnare la ricchezza sociale nelle mani delle cricche di turno, ma la riappropriazione collettiva della città e l’autoproduzione di socialità, servizi, cultura solidale vanno sgomberate, in quanto violazioni della legalità stessa.
Ma, passato lo sgomento, se quella persona saprà volgere lo sguardo intorno, si accorgerà che un’altra città sta progressivamente emergendo: è formata proprio da tutte quelle esperienze che producono socialità fuori mercato, che mettono in campo la cooperazione solidale contro la solitudine competitiva, che si riappropriano quotidianamente di diritti, beni comuni e di tutto ciò che a tutti appartiene. E che, lungi dal sentirsi solo gli ultimi resistenti contro il nuovo modello costituente, ha deciso di praticare il diritto alla città, prendendo di petto il tema del debito, contestandone la legittimità, e contrapponendo al pareggio di bilancio finanziario la necessità di un pareggio di bilancio sociale, ovvero diritti per tutti.
E’ un’altra città che rivendica una democrazia dal basso e radicale, perché il destino di questa città dev’essere posto nelle mani degli uomini e delle donne che la abitano, la vivono quotidianamente e la amano, anche se troppo spesso non corrisposti.
Ora ne sono certo: quella persona era in Piazza Vittorio Emanuele sabato e ha partecipato al corteo “Roma non si vende”.
Fonte: Attac Italia
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