di Valeria Cirillo, Marta Fana e Dario Guarascio
La bolla occupazionale del Jobs Act è scoppiata, dunque, e sembra averlo fatto prima del previsto. Nulla di nuovo sotto il sole, tuttavia. Come preconizzavamo lo scorso novembre, la crescita dei contratti a tempo indeterminato nell’era Jobs Act-decontribuzione si sarebbe dimostrata nulla più che un’illusione, in particolare dopo il dimezzamento degli incentivi operato ad inizio 2016 (fino a dicembre 2015, per ogni nuovo contratto o trasformazione di altri contratti in contratti a tempo indeterminato il governo ha garantito un sconto sui contributi per le imprese di 8060 euro).
In un contesto di debolezza strutturale con un PIL stagnante – variazione del PIL su base annua dello 0,8% per il 2015 rispetto al 2,8% europeo – ed una modestissima crescita degli investimenti – 0,2% rispetto a 2,3% europeo -, non ci si sarebbe potuti aspettare gran che di diverso. Il combinato disposto Jobs Act-decontribuzione non ha in alcun modo favorito l’occupazione, ne tantomeno quella “stabile” ma ha esclusivamente coinciso con un generoso regalo alle imprese.
Un nuovo tassello della lotta di classe alla rovescia, un trasferimento di risorse dal lavoro (via fiscalità generale) al capitale (sconto sui contributi alle imprese).
Un nuovo tassello della lotta di classe alla rovescia, un trasferimento di risorse dal lavoro (via fiscalità generale) al capitale (sconto sui contributi alle imprese).
D’altronde, le imprese italiane di occupazione “stabile” e di qualità non sembrano averne bisogno. E perché dovrebbero, a fronte di una crescita annua dei consumi familiari pari allo 0,1% (Eurostat). Ma vediamo cosa dicono i numeri nel dettaglio. Dopo l’impennata di attivazioni a tempo indeterminato osservata nel mese di dicembre 2015, già a partire da gennaio 2016 lo scenario cambia. Il numero di nuovi contratti a tempo indeterminato crolla. La differenza tra attivazioni e cessazioni di contratti a tempo indeterminato entra, per la prima volta da molto tempo, in territorio negativo (–12.378). Questo dato conferma quanto già sottolineato dall’Osservatorio sul Precariato INPS: l’esonero contributivo triennale, introdotto dalla legge di stabilità 2015, ha avuto un effetto determinante sull’incremento dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato – su 2,5 milioni di attivazioni di posizioni di lavoro a tempo indeterminato includendo anche le trasformazioni, oltre 1,5 milioni, pari al 62% del totale, hanno beneficiato dell’esonero contributivo. Le assunzioni attivate da datori di lavoro privati calano a gennaio 2016 di 120.000 unità (–23%) sul gennaio 2015. Un rallentamento che ha coinvolto soprattutto contratti a tempo indeterminato (–70.000, pari a 39%, sul gennaio 2015 e –50.000, pari a –32%, sul gennaio 2014). Anche il flusso delle trasformazioni a tempo indeterminato rallenta tanto per i contratti a tempo determinato (–5% sul gennaio 2015) che per quelli di apprendistato (–2% sul gennaio 2015).
Ciò che invece non dimostra un’inversione di tendenza è la vendita dei voucher – 9,2 milioni di voucher venduti nel gennaio 2016 – che a prescindere dalle misure di decontribuzione in vigore per le altre forme contrattuali continua ad aumentare – + 36% rispetto al gennaio 2015 -. Ed è probabilmente la dinamica dei voucher l’espressione veritiera di un apparato produttivo debole e timoroso, le cui aspettative negative si riflettono in un’occupazione precaria e alla mercé delle esigenze del momento.
In un contesto simile, l’esercizio di correre dietro alle rilevazioni statistiche mensili in un paese che procede inarrestabile sulla china del proprio declino comincia a diventare un’attività piuttosto frustrante. Allargando il quadro temporale di riferimento – come ha recentemente fatto Davide Mancino su L’Espresso – emerge allora che i precari non stanno affatto diminuendo, la quota di lavoratori con un contratto temporaneo sul totale degli occupati è aumentata dal 7,2% del 1995 al 13,6% del 2014 per la fascia 15-64, e dal 13,7% al 40,6% per coloro fra i 15 e i 29 anni. Il quadro è ancora più drammatico se si considera la durata del contratto, è aumentata nel tempo la quota dei contratti a meno di 12 mesi triplicando di fatto lo stock della stessa tipologia contrattuale a fine anni Novanta. (Fonte: Fana, Guarascio e Cirillo – 2016)
L’Italia è su una preoccupante parabola discendente, dunque. E lo è per i suoi malanni strutturali di cui poco e si parla e che si riflettono, però, anche nell’incapacità di offrire, a chi la vorrebbe, un’occupazione decente. Un’occupazione decente che è un miraggio in particolare per i più giovani. Proprio quei giovani che Renzi vorrebbe blandire con il suo linguaggio da social network ma che si ritrovano invece a fare i conti con una realtà che lascia loro, nel migliore dei casi, un’unica prospettiva: quella dell’emigrazione. Con buona pace della struttura produttiva italiana che, per riprendersi, avrebbe bisogno di dosi massicce di innovazione tecnologica, conoscenza e giovani talenti.
Fonte: Popoff Quotidiano
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