di Elena Canadelli
Nel dibattito scientifico alcune idee fanno fatica a scomparire, nonostante le evidenze raccolte contro di esse. Si è convinti di averle smantellate una volta per tutte e loro invece rientrano dalla porta di servizio, o forse non se ne erano mai andate. È questo il caso delle “razze” nello studio della diversità genetica umana. Pagine e pagine sono state scritte sull’origine, l’evoluzione, la pericolosità e l’inutilità di questo concetto. Per limitarsi al Novecento, basti ricordare i lavori del genetista ed evoluzionista Theodosius Dobzhansky, sul fronte biologico, e quelli dell’antropologo francese Claude Lévi-Strauss, sul fronte dell’antropologia culturale. Già nel 1942 l’antropologo Ashley Montagu l’aveva definita uno dei miti più pericolosi elaborati dall’essere umano. Nel 1950, pochi anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale, la Dichiarazione sulla razza stilata a Parigi dall’Unesco puntava a fare ordine sulla questione, con la consapevolezza che i confini tra biologia, cultura e politica erano ormai indissolubilmente e tragicamente intrecciati tra loro.
Tutto a posto allora? Stando a un articolo uscito poche settimane fa su Sciencesembrerebbe proprio di no[1]. A firmarlo sono quattro studiosi statunitensi, esperti in materia: Michael Yudell, professore di salute pubblica alla Drexel University, già autore per la Columbia University Press del libro Race Unmasked: Biology and Race in the 20th Century (2014), la sociologa Dorothy Roberts[2] e la genetista Sarah Tishkoff, dell’Università della Pennsylvania, insieme a Rob DeSalle, dell’American Museum of Natural History di New York, esperto di genomica e sistematica molecolare, oltre che curatore di una mostra sul cervello arrivata nel 2013 anche in Italia. Non è la prima volta che genetisti di popolazione, antropologi molecolari e biologi evoluzionisti prendono la parola per “estromettere” (taking out) la razza dalla genetica umana, come recita in maniera efficace il titolo dell’articolo. Per limitarci all’Italia, si pensi per esempio all’appello rivolto qualche tempo fa alle massime autorità dello Stato da Gianfranco Biondi e Olga Rickards per l’abolizione del termine “razza” dalla Costituzione italiana[3].
Leggendo l’articolo non si può fare a meno di chiedersi perché il concetto di “razza” applicato alla diversità genetica umana continui oggi a fare discutere biologi e genetisti. Perché, insomma, non è stato messo in soffitta tra i “ferri vecchi” della ricerca biologica, come il flogisto della chimica o il preformismo dell’embriologia? Il terreno è quanto mai scivoloso e, che piaccia o no, obbliga il mondo della scienza a fare i conti con questioni sociali e culturali di primo piano, dai diritti civili alle diseguaglianze a cui vanno incontro certi gruppi umani rispetto ad altri, per esempio nelle questioni riguardanti la salute pubblica. Non bisogna infatti dimenticare che sull’esistenza di ipotetiche “razze” umane, biologicamente e geneticamente determinate, si sono giocate, e si giocano, battaglie sociali, politiche, economiche, culturali, che vanno al di là dell’ambito scientifico. È questo il caso del recente revival di certa antropologia medica e medicina razziale negli Stati Uniti.
Il dibattito non è nuovo. Sull’infondatezza biologica del concetto di razza umana aveva insistito già nel 1935 il genetista Julian Huxley nel libro Noi Europei. Un’indagine sul problema «razziale», scritto in collaborazione con l’etnologo Alfred Haddon e altri, senza dimenticare gli importanti contributi di Dobzhansky, ricordato più volte anche nel corso dell’articolo, Frank B. Livingstone, Richard Lewontin e Luigi Luca Cavalli-Sforza. Del resto, già Darwin nell’Origine dell’uomo (1871), mentre spiegava la diversità umana principalmente attraverso le dinamiche della selezione sessuale, non poteva non riscontrare la più grande varietà di giudizi in materia di numero delle “razze” e quanto fosse difficile stabilire chiari caratteri distintivi tra esse; lui che aveva allenato i suoi occhi a osservare crostacei altamente variabili come i Cirripedi. Il termine “razza”, “sottospecie” o “varietà geografica” è usato oggi in biologia per definire gruppi di individui distinti nel genotipo e nel fenotipo all’interno di una stessa specie, che sono fecondi tra loro. Ernst Mayr, uno dei maggiori biologi evoluzionisti del Novecento, distingueva a questo proposito tra specie in cui le caratteristiche degli individui variano gradualmente nello spazio geografico e specie nelle quali si riscontrano nette differenze biologiche fra gruppi separati da confini. Solo nel secondo caso si può parlare di “sottospecie” o “razze”. La genetica di popolazioni e lo studio dell’evoluzione umana hanno dimostrato che in virtù della sua storia filogenetica recente e dell’assenza di barriere tra le popolazioni umane, che ha portato al mescolamento di geni più che all’isolamento riproduttivo, Homo sapiens non rientra in quest’ultimo caso.
Come ha spiegato il genetista dell’Università di Ferrara Guido Barbujani in libri come L’invenzione della razza. Capire la biodiversità umana (2006), la nostra è una specie recente, molto mobile, fertile e promiscua, discendente da un piccolo gruppo iniziale, che nacque in Africa meno di 200 mila anni fa e che da lì ha colonizzato tutto il Pianeta. È dunque biologicamente errato parlare di “razze” umane: non c’è stato né il tempo né lo spazio perché si sviluppassero. Come ogni specie giovane, Homo sapiens presenta una forte uniformità genetica di fondo. I continenti sono geneticamente poco differenziati tra loro, mentre all’interno di ogni popolazione e massimamente in Africa troviamo una fetta molto ampia della diversità genetica mondiale. In media, ci sono differenze più grandi fra due africani che fra europei e asiatici. Per dirla con il motto coniato qualche anno fa dal genetista francese Andrè Langaney, per la genetica siamo “tutti parenti, tutti differenti”.
Se le cose stanno così, è lecito domandarsi perché oggi si continui a discutere di “razza” dentro e fuori la comunità scientifica. A maggior ragione se si pensa che nei primi anni Duemila in seguito al sequenziamento del genoma umano alcuni scienziati chiedevano l’abbandono dell’uso del termine “razza” nella ricerca genetica, rivelatosi infondato. Al contrario, nell’era post-genomica l’impiego di questo termine come categoria biologica applicata alla specie umana è cresciuto, non diminuito[4]. Yudell e colleghi riassumono con lucidità le differenti posizioni in campo. Alcuni, come il biologo dell’Università della California Esteban González Burchard, sostengono l’utilità delle categorie razziali ed etniche per la ricerca clinica ed epidemiologica, fondamentali a loro dire per comprendere i rischi genetici e ambientali a cui vanno incontro determinati gruppi umani[5]. Per scienziati come Yambazi Banda dell’Università della California[6] o come il medico del Massachusetts General Hospital Camille E. Powe e colleghi[7] la razza sarebbe ancora il miglior mezzo a nostra disposizione per esaminare la diversità genetica umana, come mostrerebbero per esempio alcuni dati sulle differenze dei livelli di vitamina D negli americani “neri” e in quelli “bianchi”. Sarebbe interessante capire quale definizione di “bianco” e “nero” abbiano utilizzato i ricercatori per raccogliere i propri dati. Altri, come David Serre e Svante Pääbo del Max Planck Institute di Lipsia, uno dei maggiori centri di antropologia evoluzionistica al mondo, hanno invece concluso che il concetto di razza non è né rilevante né accurato per mappare la diversità genetica umana[8]. Infine, vi è chi, come il gruppo di ricercatori del J. Craig Venter Institute in Maryland, ha sostenuto che in materia di farmaci predizioni cliniche basate sulla razza sono discutibili, data la natura eterogenea dei gruppi razziali, suggerendo piuttosto di lavorare sulla genomica del singolo individuo[9]. Tra i genetisti convinti dell’esistenza biologica delle razze, vi è poi chi ha creduto di risolvere la questione affermando che l’esistenza delle razze, intese come predisposizioni biologiche innate, non sarebbe di per sé una ragione per essere razzisti. Il trucco, quindi, consisterebbe semplicemente nel tenere separate la dimensione biologica, appannaggio della scienza, da quella sociale. Più facile a dirsi che a farsi quando si parla di gruppi umani.
Il panorama, anche terminologico, è tutt’altro che chiaro. Secondo gli autori dell’articolo di Science, il problema è stato sottovalutato per troppo tempo dalla comunità scientifica ed è diventato più drammatico da quando la genetica a larga scala ha iniziato a utilizzare il concetto di razza per scremare l’ingente mole di dati raccolti. Per Yudell e colleghi la questione continua a essere mal posta: quando si parla di genetica umana, infatti, è necessario separare l’“ancestry”, la singola storia genealogica di ognuno di noi, dalla categoria tassonomica di razza. Se la discendenza è una questione “privata” di relazioni tra individui (io, i miei genitori, i miei nonni, e così via), la razza chiama in causa una tassonomia basata su un’ipotetica appartenenza a priori di un individuo a un determinato gruppo umano geograficamente circoscritto e socialmente caratterizzato in base ad alcuni caratteri, come il colore della pelle. Oggi conosciamo bene quali siano i rischi di questo secondo approccio, che nel corso del tempo ha portato con sé una pericolosa gerarchizzazione degli esseri umani. E del resto, già alcuni naturalisti del Settecento, come Johann Friedrich Blumenbach, sul tema delle varietà umane avevano sottolineato la difficoltà di tracciare confini, necessariamente arbitrari, date le differenze impercettibili e graduali osservabili tra i diversi individui.
Lontano da certi dibattiti ideologici novecenteschi, oggi l’attenzione per le razze sembra riguardare prevalentemente la ricerca medica e clinica su temi centrali come quello della salute: gli scienziati lavorano sulle differenze tra gruppi esistenti a livello di popolazione allo scopo di comprendere l’evoluzione umana, i fattori genetici di rischio delle malattie e individuare cure adeguate. Se questi sono gli obiettivi, dove sta il problema? Le risposte di Yudell e colleghi sono diverse. In primo luogo, gli studi filogenetici e di genetica di popolazione non consentono di classificare a priori i membri di Homo sapiens in razze, come avviene normalmente in specie altamente incrociate. Inoltre, gruppi che sembrano ben circoscrivibili sono in realtà geneticamente compositi, dato che non sono state riscontrate importanti differenze genetiche al loro interno, come dimostrato nell’articolo di Serre e Pääbo sopracitato. Trascurare questi dati può comportare una diagnosi errata, come è avvenuto con le emoglobinopatie, considerate tipiche dei “neri”, la talassemia, considerata una patologia “mediterranea”, o la fibrosi cistica, mal diagnosticata in popolazioni di origine africana perché considerata una malattia dei “bianchi”[10].
Vi è poi un altro aspetto, non meno importante, legato al dibattito pubblico su questi temi. Basti pensare al riferimento fuorviante al concetto di “razza” per fare marketing sui farmaci, un fenomeno in costante crescita specialmente negli Stati Uniti. Celebre è il caso del BiDil, un farmaco per curare l’insufficienza cardiaca. A differenza dei medicinali standard, che si rivolgono alla popolazione in generale, il BiDil è stato proposto per curare un gruppo etnico specifico: gli afroamericani. Questo tipo di cure, che puntano a conquistare una specifica fetta di mercato, si basano sulla credenza scientificamente infondata che gli afroamericani costituiscano un gruppo biologico e genetico discreto. L’individuazione di eventuali caratteristiche genetiche (per esempio maggiore predisposizione a certe malattie) in quella popolazione non sarebbe sufficiente per definirla una “razza” e dunque non avrebbe senso definire gli eventuali farmaci come “razziali”. Come scriveva già nel 2004 Francis S. Collins del National Human Genome Research Institute di Bethesda, in Maryland, se si resta attaccati ai concetti di “razza” ed “etnicità” non si comprendono i molteplici fattori ambientali e genetici alla base delle malattie, in cui rientrano anche lo status socioeconomico, l’educazione e l’accesso alle cure mediche[11].
L’utilizzo poco chiaro e ambiguo del termine “razza” nel dibattito genetico alimenta inoltre credenze razziste, obbligando in alcuni casi genetisti e biologi a prendere pubblicamente posizione. È avvenuto per esempio nell’agosto 2014[12], quando sulle pagine del New York Times un gruppo di oltre 100 genetisti di popolazione e biologi evoluzionisti, capeggiati da Graham Coop dell’Università della California, ha pubblicato una lettera per ribadire che le loro ricerche non forniscono una base genetica alle differenze sociali tra gruppi umani. Coop e colleghi si riferivano all’articolo di David Dobbs del 10 luglio, in cui il giornalista sosteneva giustamente che il libro che stava recensendo, a firma del giornalista scientifico Nicholas Wade, A Troublesome Inheritance: Genes, Race and Human History, applicasse indebitamente ricerche genetiche a questioni socio-economiche come la misurazione del quoziente intellettivo[13]. Echi del dibattito originato dal controverso libro di Wade, recentemente tradotto in italiano per Codice edizioni, si ritrovano anche in Italia, dove è stato duramente (e giustamente) criticato da Barbujani[14].
Sulle “razze” e sulla diversità umana, la biologia sembra dunque ancora imprigionata nel paradosso che una cinquantina di anni fa aveva attanagliato anche Dobzhansky: utile strumento o marker troppo impreciso per chiarire la relazione tra discendenza e genetica? Mentre si cerca di risolvere la questione, gli autori dell’articolo suggeriscono di lavorare almeno sul linguaggio. Società scientifiche e riviste specializzate dovrebbero incoraggiare l’uso di termini come “ancestry” o “popolazione”, invitando gli autori a definire meglio le variabili considerate. Alcuni, come Stephanie M. Fullerton dell’Università di Washington, Seattle[15], o Lundy Braun della Brown University, con il caso dell’Africa degli anni Trenta e Quaranta del Novecento[16], hanno fatto notare che cambiare la terminologia non risolve il problema se non si cambia la concezione “razziale” che ne sta alla base. Vero, ma, come affermava Nanni Moretti in una celebre scena del film Palombella rossa, “le parole sono importanti”, anche in biologia. Il linguaggio ha un impatto decisivo su come il pubblico, compresi gli stessi scienziati, affronta il tema della diversità umana, nelle sue implicazioni mediche, sociali ed economiche. Lo argomentano bene i sociologi statunitensi W. Carson Byrd e Matthew W. Hughey in un articolo pubblicato pochi mesi fa[17]. Qui denunciano il rischio di cadere nell’essenzialismo della “razza”, di credere che le razze esistano veramente là fuori, determinate dai nostri geni, in una forma triviale di determinismo biologico. Riflettere e chiarire la terminologia contribuirebbe quindi a lanciare un messaggio importante, perché sulla diversità genetica umana è facile prestare il fianco a manipolazioni o letture ideologiche.
L’articolo di Science dimostra che il dibattito sulle “razze” non è per nulla superato, soprattutto negli Stati Uniti. Per Yudell e colleghi, però, “è tempo che i biologi trovino una soluzione migliore” se non vogliono precludersi la comprensione della storia evolutiva e della diversità genetica umana. Per questo chiedono a gran voce un tavolo di lavoro e di confronto in cui riunire esperti delle scienze biologiche, sociali e umane, sotto l’egida delle principali accademie scientifiche statunitensi, con l’obiettivo di superare l’uso classificatorio del termine “razza umana” nella ricerca di base e in quella clinica. Come sostenevano Richard S. Cooper e colleghi[18], in risposta alle posizioni “pro razza” di Esteban González Burchard, più che all’avanzamento della genomica, la categoria di “razza” sembra rispondere a una “credenza atavica che le popolazioni umane non siano solamente organizzate, ma ordinate”. Al di là del politicamente corretto, dunque, se trascurata la questione aperta della “razza” rischia di minare in profondità lo studio futuro della diversità genetica umana.
NOTE
[1] Michael Yudell, Dorothy Roberts, Rob DeSalle, Sarah Tishkoff, Taking race out of human genetics. Engaging a century-long debate about the role of race in science, Science, 5 febbraio 2016, vol. 351: 564-565 http://science.sciencemag.org/content/35...
[2] Si veda la sua Ted Conference sulla medicina razziale http://www.ted.com/talks/dorothy_roberts...
[3] Si veda il testo della lettera disponibile all’indirizzo http://www.cittadellascienza.it/centrost...
[4] Peter A. Chow-White, Sandy E. Green Jr., Data mining difference in the Age of Big Data: Communication and the social shaping of genome technologies from 1998 to 2007, International Journal of Communication, 2013, 7: 556-583 http://ijoc.org/index.php/ijoc/article/v...
[5] Esteban González Burchard, Elad Ziv, Natasha Coyle, Scarlett Lin Gomez, Hua Tang, Andrew J. Karter, Joanna L. Mountain, Eliseo J. Pérez-Stable, Dean Sheppard, Neil Risch, The Importance of race and ethnic background in biomedical research and clinical practice, New England Journal of Medicine, 2003, 348: 1170-1175 http://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJ...
[6] Yambazi Banda, Mark N. Kvale, Thomas J. Hoffmann, Stephanie E. Hesselson, Dilrini Ranatunga, Hua Tang, Chiara Sabatti, Lisa A. Croen, Brad P. Dispensa, Mary Henderson, Carlos Iribarren, Eric Jorgenson, Lawrence H. Kushi, Dana Ludwig, Diane Olberg, Charles P. Quesenberry, Jr., Sarah Rowell, Marianne Sadler, Lori C. Sakoda, Stanley Sciortino, Ling Shen, David Smethurst, Carol P. Somkin, Stephen K. Van Den Eeden, Lawrence Walter, Rachel A. Whitmer, Pui-Yan Kwok, Catherine Schaefer, Neil Risch, Characterizing Race/Ethnicity and Genetic Ancestry for 100,000 Subjects in the Genetic Epidemiology Research on Adult Health and Aging (GERA) Cohort, Genetics, 2015, 200: 1285-1295 http://www.genetics.org/content/200/4/12...
[7] Camille E. Powe, Michele K. Evans, Julia Wenger, Alan B. Zonderman, Anders H. Berg, Michael Nalls, Hector Tamez, Dongsheng Zhang, Ishir Bhan, S. Ananth Karumanchi, Neil R. Powe, Ravi Thadhani, Vitamin D–Binding Protein and Vitamin D Status of Black Americans and White Americans, New England Journal of Medicine, 2013, 369: 1991-2000 http://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJ...
[8] David Serre, Svante Pääbo, Evidence for gradients of human genetic diversity within and among continents, Genome Research, 2004, 14(9): 1679-1685 http://genome.cshlp.org/content/14/9/167...
[9] PC Ng, Q. Zhao, S. Levy, RL. Strausberg, JC. Venter, Individual genomes instead of race for personalized medicine, Clinical Pharmacology and Therapeutics, 2008 Sep., 84(3): 306-309 http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1038/clpt.2008.114/abstract
[10] Cheryl Stewart, Michael S. Pepper, Cystic fibrosis on the African continent,Genetics in Medicine, 2015 http://www.nature.com/gim/journal/vaop/n...
[11] Francis S. Collins, What we do and don't know about 'race', 'ethnicity', genetics and health at the dawn of the genome era, Nature Genetics, 2004, 36: S13-S15 http://www.nature.com/ng/journal/v36/n11...
[14] http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2014-07-06/razzismo-vecchio-e-nuovo-081323.shtml?uuid=AByGw8XB
[15] Stephanie M. Fullerton, Joon-Ho Yu, Julia Crouch, Kelly Fryer-Edwards, Wylie Burke, Population description and its role in the interpretation of genetic association, Human Genetics, 2010, 127(5): 563-572 http://link.springer.com/article/10.1007...
[16] Lundy Braun, Evelynn Hammonds, Race, populations, and genomics: Africa as laboratory, Social Science & Medicine, 2008, 67(10): 1580-1588 http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0277953608003845
[17] W. Carson Byrd, Matthew W. Hughey, Biological determinism and racial essentialism: The ideological double helix of racial inequality, The Annals of the American Academy of Political and Social Science, September 2015, vol. 661: 8-22 http://ann.sagepub.com/content/661/1/8.e.... Si veda anche http://www.huffingtonpost.com/matthew-w-...
[18] Richard S. Cooper, Jay S. Kaufman, Ryk Ward, Race and genomics, New England Journal of Medicine, 2003, 348: 1166-1170 http://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJ...
Fonte: MicroMega online
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