di Morena Piccinini
Il disegno di legge delega per contrastare il fenomeno della povertà è poco più di un elenco di buoni propositi che se non accompagnato da misure specifiche, soprattutto economiche, rischia di lasciare le cose così come sono. L’impegno espresso delle Regioni, supportato dai dati forniti dall’Istat, di voler collaborare con il governo, a patto che si mettano sul piatto risorse adeguate, dimostra quanto siano ancora troppo generiche le misure contenute nel disegno di legge, ora al vaglio della Commissione lavoro e affari sociali della Camera. L’Istituto di Statistica ha fornito un quadro davvero inquietante sul fenomeno della povertà. In Italia, circa un milione mezzo di famiglie non hanno sufficienti risorse per garantirsi la sopravvivenza, pari al 5,7% del totale dei nuclei familiari. Se si osserva il dato sotto il profilo della quantità degli individui, si tratta di oltre 4 milioni di persone (il 6,8% dell'intera popolazione).
Un fenomeno già noto nel nostro paese, che è diventato emergenza con la crisi economica e occupazionale. Fino al 2011, infatti, la diffusione della povertà “si è mantenuta stabile su livelli prossimi al 4% delle famiglie residenti, seppure con dinamiche differenziate nei sottogruppi di popolazione", avverte l’Istituto di statistica. Il deterioramento della situazione, generalizzato a tutte le ripartizioni, "è emerso nel 2012 e nel 2013, quando l'incidenza di povertà assoluta ha mostrato un aumento di circa 2 punti percentuali a livello familiare (dal 3,4% al 4,4% nel Nord, dal 3,6% al 4,9% nel Centro, dal 5,1% al 10,1% nel Mezzogiorno)”.
Contrastare il fenomeno della povertà in Italia si può, ma per farlo occorrono idee chiare e distinte: chiare perché non basta prendere atto della situazione e indicare dei titoli sotto cui si può nascondere tutto; distinte, perché occorre capire bene cosa si intende fare concretamente, specificando dove si prendono le risorse e, soprattutto, come evitare che i costi dell’operazione ricadano sugli stessi lavoratori, generando altra povertà, oltre a quella già palese. Il cosiddetto S.I.A, Sistema di Inclusione Attiva, indicato nel disegno di legge come novità, perché presuppone l’impegno della persona in condizioni di disagio economico di fare qualcosa in cambio di assistenza, è un titolo che non spiega, non chiarisce e, soprattutto, rischia di gettare le fondamenta di un sistema di welfare caritatevole, smantellando ogni residuo di universalismo, che il principio su cui si è costruito il modello finora conosciuto.
Sotto il profilo finanziario, il governo non ha ancora chiarito, inoltre, se le pensioni di reversibilità, fanno parte del tesoretto, a cui attingere per istituire il Fondo di contrasto alla povertà. Al di là delle parole di rassicurazione espresse dal ministero del lavoro e dal presidente del Consiglio, dopo le proteste di Cgil, Cisl e Uil, non si è andati molto in là. Sembrano proprio non ascoltare i sindacati, vissuti come un ostacolo a qualunque riforma governativa. Non è questo il modo di procedere. Le pensioni di reversibilità non sono misure di natura assistenziale, ma previdenziale, e cioè, pagate con i contributi dei lavoratori e delle lavoratrici. Peraltro, già la riforma del sistema pensionistico del ‘95 aveva agganciato queste prestazioni al reddito dei familiari superstiti, provocando una consistente riduzione degli assegni dovuti.
Non si capisce come ora si vogliano rimescolare le carte confondendo spesa previdenziale e assistenziale. Questa distinzione è ancor più urgente oggi, perché abbiamo bisogno che sia fatta chiarezza finalmente sulla sostenibilità del nostro sistema pensionistico, da oltre 20 anni sottoposto costantemente a scossoni. Un fatto e non una opinione che ha reso incerto il futuro pensionistico dei giovani, sempre più scettici e sfiduciati, ma anche quello dei lavoratori e delle lavoratrici già occupati da tanti anni, costretti a rincorrere i requisiti per il pensionamento, legati all’infinita speranza di vita. Una situazione grave che impedisce il naturale turn over occupazionale, con le relative conseguenze sulla disoccupazione di lungo termine.
Il ddl sulla povertà deve partire da una premessa precisa: le risorse vanno cercate in un capitolo di bilancio dello Stato ben distinto, soprattutto in considerazione del fatto che l’Italia, sotto questo profilo, deve recuperare ritardi notevoli. L’Istat, durante l’audizione in Commissione Lavoro, lo ha detto forte e chiaro. Il nostro paese spende meno che nel resto d'Europa per la protezione sociale dei gruppi di popolazione deboli; specificando, tra l'altro, che la quota di spesa pubblica ad essi destinata sul totale di quella sociale (10,4%) è di circa 10 punti percentuali inferiore a quelle di Francia e Germania e alla media Ue. Di questa somma di denaro, solo lo 0,7%, è impegnato per politiche di contrasto alla povertà e all'esclusione sociale. Un valore che è inferiore di oltre la metà rispetto alla quota riferibile alla media Ue28 (pari all'1,9%).
Fonte: Rassegna Sindacale
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