di Ilaria Bussoni
Qual è la realtà delle parole? É la domanda di fondo della raccolta di lemmi sottesa al volume curato da Massimo Ilardi, Breve dizionario della ideologia italiana (manifestolibri, pp. 269, euro 22), testi usciti tra il 2012 e il 2015 sulla rivista «Outlet». Quali parole costruiscono, sedimentano, convalidano comportamenti, scelte apparenti, espressioni del libero arbitrio, discorsi fatti propri, posizioni a fianco degli uni e contro gli altri?
Qual è il rumore di fondo, quel cicaleccio impersonale sul quale si stagliano concrezioni che sono sì fatte di lettere (l-i-b-e-r-t-à o anche r-e-s-p-o-n-s-a-b-i-l-i-t-à) ma soprattutto di spinte, affezioni, forza, pressioni, movimenti tellurici non della lingua in sé, ma di un ambito che è il dispiegarsi del potere e di una governamentalità che fa presa e si incarna negli individui e nelle relazioni passando per affetti, economia, politica? E che ci spinge a dire, a tacere, a fare, ad accettare e spesso a occupare un posto che non è quello in cui vorremmo stare?
Dentro una scena che è quella della svolta oscura del neoliberismo dopo che ha smesso di rendere tutti felici, della crisi economica consolidata in eccezione permanente, del cambio di guardia tra un presidente smagliante a 32 denti, il rigore blu dei tecnici garanti dello spread e la pinguedine calciobalilla dell’ultimo rampollo al governo. Della precarizzazione di un lavoro che (per fortuna) in certe forme non si dà più, ma che diventa servitù e sfruttamento nel perseverare e aggiornarsi della parola «lavorismo». Una scena poi rideclinata in chiave morale, con sdegno e riprovazione che chiamano giudici e giudizio, vittime da salvare, integrità femminili da ripristinare dalle distorsioni del mercimonio dello spettacolo, tutti mobilitati a occupare un posto in quel tribunale che è diventato il pubblico, mentre nel lettone si fa spazio per il figlio sul quale si investe come un progetto e fare la mamma è il modo in cui donne (e uomini) tornano a godere e a riprendersi dai default biografici.
Rubando il termine al giardiniere Gilles Clément, più che un lessico dell’ideologia, questo libro è un brassage dei sentimenti e dei risentimenti, delle affezioni e dei patimenti che danno forma alle parole concrete con le quali quotidianamente siamo alla prese. Quelle parole che costellano un paesaggio sì culturale, sociale e politico – dell’Italia dell’ultimo ventennio –, ma soprattutto un paesaggio affettivo e comportamentale dei soggetti che quelle parole se le sono trovate davanti, a proferirle o ad averci a che fare. Perché del resto interrogarsi sulle parole, se non per guardare a chi se le fa uscire di bocca? Dietro la credibilità, chi non è credibile; dietro il lavorismo, chi vuole far lavorare; dietro l’ingovernabilità, chi vuole governare; dietro l’emergenza, i tanti poteri emergenti; dietro il risentimento, gli impotenti; dietro la paura, noi tutti. Le parole dell’ordine che hanno accompagnato la piega nostrana presa dalla svolta neoliberale: della quale sono parte integrante tanto tangentopoli – che a metà anni ’90 consentiva l’applicazione delle stesse ricette del Fondo monetario internazionale altrove portate avanti a colpi di debito o di guerra civile –, quanto Berlusconi, che sul terreno della libertà si trovava a dover rincorrere e colonizzare i comportamenti di liberazione di massa diffusi degli anni ’70, comunque ben più balzandosi dei suoi. Tanto la legalità, appaiata al rigore (dei conti) alla decenza (dei costumi) alla temperanza (dei comportamenti), quanto la famiglia (cioè la mafia).
Continuando a saccheggiare Clément il giardiniere, il paesaggio italiano che per lemmi in questo libro si tratteggia è un paesaggio Terzo: è quello dell’incolto, della vita che rispunta da margini improbabili e non per forza belli e simmetrici, delle erbe randagie che c’è chi ramazza, chi diserba e chi guarda. Un paesaggio storto e affatto rassicurante dove transitano Suv e centri commerciali, olgettine e vaffanculo trasformati in feste politiche, sentimenti dalla puzza di viscere che si scannano su un’arena televisiva, disseminato da una conflittualità dilagante e pervasiva che, come dice Andrea Colombo, «si gioca in una sola metà campo, quella del lavoro». Insomma, un paesaggio non granché diverso dalla stazione di posta dell’ultimo film di Tarantino.
Di contro, c’è chi aspira a governarla questa friche di malerbe, cresciute storte per necessità di farsi largo nell’esistente, chi pretende non da adesso ordine e fiori sui balconi… andare camminare lavorare, precisava Piero Ciampi. Parole d’ordine spacciate per parole tecniche ed evidenza dei fatti, urgenza di riforma e modernità: compromesso, innovazione, progetto. Parole d’ordine scambiate per quelle della critica, con buon senso e compostezza: Calvino, Moretti, la Repubblica giornale. Questo libro, invece, prova a starle a sentire le erbacce: anche quando parlano la lingua del populismo o di Maria De Filippi, della rassegnazione di una coppia innamorata italo-greca o dell’addicted da shopping mall. Il tentativo è quello di guardare a un altro paesaggio possibile, quello Terzo che già si dispiega sotto i nostri occhi, normato da una lingua che non gli consente di dire quello che è: la fine della società del lavoro, dell’apparato moderno di Stato e nazione, dell’impalcatura della rappresentanza che darebbe forma a politica e relazione civile, ma soprattutto un desiderio di vita presente che riduca lo scarto con la possibilità di soddisfarlo. Certo al Terzo paesaggio fa ancora difetto una lingua propria. Eppure tra l’ultimo aggiornamento di questo dizionario nel 2015 e oggi, se non proprio le parole, qualcosa è cambiato. Basta guardare cosa trema sotto la terra di «clandestini», termine scosso dal movimento di donne e uomini in cammino oltre i recinti e dentro la loro vita. Non è detto che per mettersi in marcia gli sia servito un nome. Forse neanche a noi per capirlo. E imparare a vedere già nell’incolto un giardino fiorito: privo di aiole e infestato di vagabonde.
Fonte: il manifesto
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