di Loris Campetti
La notizia è semplice da raccontare: La Stampa cambia padrone e va a rafforzare il gruppo editoriale Repubblica-Espresso. Non è che uno dei tanti esempi di un processo di dimensione globale di accorpamento capitalistico che va dall’acciaio alla chimica, dall’auto alla moda, dall’alimentare all’informatica e all’informazione. Punto. Senonché, dietro la notizia nuda e cruda, si nasconde una storia secolare italiana e in gioco c’è un pezzo di democrazia e pluralismo.
La Stampa di Torino, fondata nel 1867, è stata negli ultimi novant’anni “il giornale del padrone”, cioè della Fiat. La famiglia Agnelli ha sempre puntato molto su Torino, e per dissetare le sue mire egemoniche ha investito notevoli risorse, oltre che sull’auto e sulla Juventus, nell’informazione. Così è cresciuto nel tempo il suo peso sul milanese Corriere della sera ed è finito nelle fauci degli Agnelli anche il Secolo XIX di Genova (i buontemponi hanno spolverato l’acronimo Ge-Mi-To).
La “vocazione atlantica” dell’Avvocato (così veniva rispettosamente chiamato Gianni Agnelli, mentre per chi voleva sfotterlo era Giuanin lamiera) non ha impedito, fino alla discesa in campo di Sergio Marchionne, la cura dell’immagine Fiat a Torino e in Italia. Poi, l’Atlantico è stato attraversato dal nuovo amministratore delegato che ha trasformato la Fiat in Fca (Fiat Chrysles Automotive), trasportando negli Usa investimenti, know-how, produzione e ricerca.
Un passo importante che per alcuni versi ha salvato la Fiat, ma è al tempo stesso il primo atto di un film che potrebbe concludersi con la vendita dell’auto, magari agli americani della Gm. Non è da oggi che Fiat punta a liberarsi delle quattro ruote, dell’editoria e di tutto ciò che non è finanza e dintorni e prosegue la sua fuga dall’Italia consegnando La Stampa al gruppo Repubblica-Espresso e vendendo la sua quota, più che consistente, nel Corriere della Sera di cui il maggior azionista potrebbe infine essere, a breve termine, lo scarparo marchigiano Diego Della Valle.
Resterà invece in The Economist, di cui possiede il 43%. Che alla cassaforte della famiglia Agnelli, la Exor, interessino poco la produzione e l’Italia è dimostrato dal fatto che un terzo del suo valore è dato dalla PartnerRe, la società di riassicurazione con base nelle Bahamas, pagata qualche mese fa 6.9 miliardi di dollari. Si tratta della potente assicurazione delle assicurazioni che si proteggono in casi di disastri naturali (tsunami) o contro natura (catastrofi ambientali provocate per esempio da stazioni di pompaggio e petroliere).
Con l’acquisizione della Stampa e la contemporanea crisi del Corriere (nel frattempo le semplificazioni editoriali hanno partorito quella che in gergo si chiama Mondazzoli) il gruppo Espresso, fondato da Adriano Olivetti, poi presieduto da Carlo Caracciolo e infine passato nelle mani di Carlo De Benedetti, diventa un colosso dell’informazione in Italia, forte anche di 19 testate giornalistiche regionali e provinciali, tre radio importanti, una tv, riviste come Limes e Micromega.
È la voce del “partito della nazione”, meglio sarebbe dire “del presidente” (Renzi). Rischia di essere qualcosa di molto simile al pensiero unico, con coperture a destra (La Stampa, per i torinesi “la busiarda”) e a sinistra (Limes è il fiore all’occhiello, guidata da Lucio Caracciolo). Non sarà un caso se di quest’ultima fusione in Italia non si è quasi parlato. L’operazione è stata preparata dal cambio di direttori, con Calabresi passato dalla Stampa a Repubblica e l’ultraatlantico e ultraisraeliano Molinari salito (da Gerusalemme e New York) alla guida del giornale torinese.
C’erano una volta in Italia due modelli industriali, due forme del tutto diverse del capitalismo: Fiat e Olivetti. Distavano poche decine di chilometri, quelli necessari per passare da Torino a Ivrea. Autoritario, addirittura militaresco il modello Fiat, democratico e persino comunitario il modello Olivetti. Come si sa, il capitalismo familiare è fatto però di intrecci, talvolta anche di letto: l’avvocato Gianni Agnelli non aveva forse preso in sposa Marella, sorella del principe Carlo Caracciolo di Castagneto?
Carlo De Benedetti tentò la sua avventura in Fiat negli anni Settanta, dove restò amministratore delegato per qualche mese prima di essere messo alla porta. Poi planò in Olivetti e la spianò, insieme all’informatica italiana, buttandosi nella finanza. Vinse e perse cause con Berlusconi (vedi Mondadori) e con Mani pulite, e infine, dopo aver lasciato la finanziaria Cir agli eredi, è diventato il Murdoch italiano. E, morto l’Avvocato, si è preso la sua rivincita su una Fiat ormai transvolata a Detroit con il solo bagaglio a mano.
Fonte: Area
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