di Raffaele Lupoli
«Io so’ io e i referendum non sono un cazzo». Tocca scomodare Belli e il Marchese del Grillo per descrivere l’atteggiamento del governo e della segreteria del Partito democratico nei confronti della volontà popolare. Che il rispetto per il voto degli italiani non sia un mantra di Renzi e dei suoi lo si era intuito. Il presidente del Consiglio del «mai al governo senza l’investitura popolare» e il suo esecutivo sono da tempo al lavoro per smontare l’esito del referendum del 12 e 13 giugno 2011 sulla gestione pubblica dell’acqua: 27 milioni di italiani al voto e il 95% di sì non sono evidentemente bastati a fermare le pressioni delle multiutility italiane e non.
Così, con il susseguirsi di diversi provvedimenti si va configurando un sistema che affida la gestione a pochi grandi soggetti, i quali – contrariamente alla volontà espressa cinque anni fa dagli elettori – hanno tutta l’intenzione di trarne profitto.
Quest’operazione finora tenuta sotto traccia, ha trovato un’eclatante conferma pochi giorni fa, con il voto in commissione Ambiente alla Camera sul ddl di iniziativa popolare fatto proprio dall’intergruppo parlamentare Pd, M5s e Si-Sel. Il via libera agli emendamenti del Partito democratico, oltre a scatenare le proteste di Sinistra italiana e 5stelle, ha determinato uno stravolgimento del testo base: la gestione non sarà più esclusivamente pubblica, ma soltanto «in via prioritaria».
Quest’operazione finora tenuta sotto traccia, ha trovato un’eclatante conferma pochi giorni fa, con il voto in commissione Ambiente alla Camera sul ddl di iniziativa popolare fatto proprio dall’intergruppo parlamentare Pd, M5s e Si-Sel. Il via libera agli emendamenti del Partito democratico, oltre a scatenare le proteste di Sinistra italiana e 5stelle, ha determinato uno stravolgimento del testo base: la gestione non sarà più esclusivamente pubblica, ma soltanto «in via prioritaria».
Se non si fermano davanti al voto già espresso, figurarsi per un referendum che ancora non si è svolto, quello sulle trivelle. Ci hanno provato con la legge di Stabilità a vanificare la portata dei sei quesiti promossi da dieci Regioni, ma uno è sopravvissuto all’intervento legislativo. Allora hanno puntato a depotenziarne l’effetto fissando la data del voto praticamente alla prima domenica utile (limitando a poco più di un mese la campagna referendaria) e rispondendo picche a chi chiedeva un intervento legislativo che consentisse di far coincidere il referendum con la data delle elezioni amministrative.
Poi, mentre guarda caso i grandi media e la tv pubblica ancora non informano adeguatamente gli italiani sulla consultazione del 17 aprile, emerge che il partito del premier-segretario ha comunicato all’AgCom la propria posizione pro-astensione. Dopo le proteste della minoranza – «Chi e quando ha deciso che il Pd si astiene?» ha chiesto Roberto Speranza – , la nota dei vicesegretari Guerini e Serracchiani (sì, la stessa che nel 2012 manifestava a Monopoli contro le trivelle) ha sentenziato che «questo referendum è inutile», che «costerà 300 milioni agli italiani» e questi soldi «potevano andare ad asili nido, a scuole, alla sicurezza, all’ambiente»; che se vince il sì «l’Italia dovrà licenziare migliaia di persone e comprare all’estero più gas e più petrolio». Una elevata dose di faccia tosta condita con lo spauracchio dei posti di lavoro a rischio e dell’energia che «dovremmo acquistare dall’estero a un prezzo maggiore».
Non disturbate in manovratore, dunque. Evidentemente il crollo degli iscritti e le primarie semi-deserte non sono bastati ad aprire una riflessione sulla differenza tra un partito e una consorteria. Lo dimostra la pretesa che due vicesegretari (e ora anche la conta dei voti nella direzione di lunedì prossimo) decidano qual è la politica energetica del Paese e che quest’ultima non possa virare verso un modello più sostenibile per l’ambiente e foriero di nuova e più qualificata occupazione.
Guerini e Serracchiani accusano i promotori del referendum e i sostenitori del sì di voler «dare un segnale politico». In altri tempi si sarebbe trattato di un complimento, o più semplicemente della constatazione di un fatto fisiologico: in una democrazia sana se l’unico strumento per orientare le scelte di governo e Parlamento è il referendum abrogativo, non ci si può fermare al dettato – spesso per forza di cose “tecnico” – del quesito, ma si approfitta di esso per discutere dei grandi temi e dare una visione di lungo termine alle politiche del Paese, mai come in questo caso determinate da una prospettiva a corto raggio e da lobby che con gli interessi della collettività hanno poco a che fare. Per questi novelli Marchesi del Grillo il titolo del sonetto del Belli è quanto mai azzeccato: Li sovrani der monno vecchio.
Fonte: il manifesto
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