di Franco Monaco
Nel vivace confronto interno al Pd, acceso da una spigolosa intervista a D’Alema, Renzi ha evocato le divisioni che hanno segnato la vicenda del centrosinistra e, segnatamente, la stagione dell’Ulivo. È indubitabile che D’Alema, sin dal convegno di Gargonza, non appena insediato il primo governo Prodi, con una franchezza al limite della brutalità, manifestò il suo dissenso sul progetto-soggetto di Ulivo prodiano. Per lui, un mero cartello elettorale. Una anomalia e un artificio nel quadro delle famiglie politiche europee, imperniate su popolari e socialisti. Ironizzando sulla retorica dell’originalità e della novità di un soggetto politico espressivo dell’unità delle forze riformiste laiche e cattoliche. A suo dire, un cedimento al provincialismo nostrano.
Così pure è indubitabile che, all’atto della caduta del primo governo Prodi, egli ascese a palazzo Chigi, senza un passaggio elettorale, cedendo al «ricatto» di Cossiga, che gli portò in dote una manciata di parlamentari di centrodestra decisivi per una nuova e diversa maggioranza, in cambio della formale archiviazione del nome e della cosa dell’Ulivo, con tanto di irrisione delle sue «foglioline». Questa è storia o comunque cronaca oggettiva.
Ma non è necessario evocare congiure. L’ambizione di D’Alema era ambizione politica, non solo personale, sostenuta da tre convinzioni: 1) che si dovesse conformare il sistema politico italiano a quello europeo intorno alla dialettica popolari-socialisti; 2) che, di regola, il leader del partito di maggioranza (lui, a capo del Pds) assume la premiership (una coincidenza tra leadership e premiership che oggi si contesta a Renzi); 3) che, attraverso una esperienza alla guida del governo, il Pds – il…meno piccolo dei partiti del centrosinistra, attestato intorno al 20% – potesse esplodere elettoralmente sino ad assurgere alla misura del 35-40%, paragonabile a quella delle socialdemocrazie europee di allora. Dunque, ambizione legittima, inscritta entro una visione politica. Alternativa a quella dell’Ulivo, a sua volta riconducibile a una idea di democrazia maggioritaria e bipolare, imperniata invece su partiti coalizionali e sulle peculiarità della storia italiana (la “questione cattolica” e la “questione comunista”).
Ciò detto, mi è difficile accedere all’idea che Renzi, il quale pure si ispira a una democrazia governante con elementi di investitura e, a valle, a un Pd quale partito a vocazione maggioritaria, sia in linea di continuità con l’Ulivo. Troppe le differenze, persino i contrasti.
Esemplifico: l’Ulivo fu progetto e soggetto di centrosinistra nitidamente alternativo al centrodestra, l’opposto del partito della nazione senza confini alla sua destra; esso era animato da una tensione inclusiva verso il centro ma anche verso sinistra; i suoi leader si sono caratterizzati per spirito unitario e non divisivo; gli slogan elettorali suonavano così «l’Ulivo una forza che unisce» il centrosinistra per unire il paese; una tale tensione si doveva esprimere anche e soprattutto in un rapporto positivo e dialogico con le forze sociali, come del resto si conviene ai partiti socialisti e laburisti un po’ ovunque; tra i propositi dell’Ulivo figurava quello di marcare l’alternatività a Berlusconi anche nell’impegno a «dire la verità agli italiani», contro il cedimento a propaganda e facile demagogia; la ricerca di una nuova sintesi tra le culture riformatrici che hanno plasmato la storia italiana ed europea, che è cosa diversa da un pragmatismo corsaro privo di riconoscibili ancoraggi; una «coscienza costituzionale» limpida e forte sia per coerenza con le culture politiche confluite nell’Ulivo, sia come corrispettivo e salvaguardia del patto costituzionale a fronte dell’incipiente bipolarismo e di una democrazia finalmente competitiva. Dopo mezzo secolo di democrazia bloccata ma, insieme, un po’ consociativa. Il programma dell’Ulivo contemplava sì le riforme costituzionali, ma fermi restando i principi, l’impianto della Carta e il metodo scolpito nella formula «le regole si scrivono insieme» (tesi n. 1 dell’Ulivo).
Di qui la ragione per la quale un ulivista non pentito come me, un tempo fiero avversario del trattino, oggi si converte all’idea di un centro-sinistra al modo del centro-sinistra storico, ove al centro renziano si possa eventualmente alleare una sinistra riformista e di governo che aspiri a un consenso a due cifre. Per vincere i populismi, ma, insieme, per scongiurare un Pd quale «partito unico di governo» e la deriva della sinistra verso un ridotto minoritario meramente testimoniale. Se ve ne saranno le condizioni, un’alleanza siglata intorno a un programma di governo negoziato e dunque autenticamente democratico e riformatore.
Fonte: il manifesto
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