di Marta Fana
Sfuggire all’affanno quotidiano, del rincorrere il vento per raccontare l’attualità, aiuta a recuperare terreno per ricostruire l’origine dei discorsi. La capacità di riportare all’interno del dibattito economico e politico una prospettiva storica è necessario per non cedere ad una narrazione che, non indagando le cause dei fatti, è incapace di scorgerne le soluzioni. Qui si colloca il saggio Senza lavoro. La disoccupazione in Italia dall’Unità a oggi di Manfredi Alberti (Laterza, pp. 226, euro 19), libro denso che approfondisce il fenomeno della «disoccupazione involontaria», dimensione connaturata allo sviluppo capitalistico. Partire dall’Unità d’Italia non è una scelta di circostanza, ma dipende dal legame tra disoccupazione e produzione capitalistica. Partendo da una visione marxiana, Alberti traccia la storia della disoccupazione italiana lungo tre direttrici.
La prima riguarda il parallelo tra la fine dell’Ottocento e i giorni nostri: l’instabilità del lavoro, la necessità di svolgere contemporaneamente più di un lavoretto per «sbarcare il lunario», l’emigrazione, la disoccupazione come questione politica. Non da ultimo, l’assenza del diritto dei lavoratori e della centralità del lavoro quale nodo nevralgico del progresso. La storia che ripetendosi non lascia spazio a un distratto déjà vu.
La seconda argomentazione affrontata da Alberti si concentra sull’inadeguatezza dell’azione politica nel rapportarsi con un fenomeno sociale, in nessun caso ineludibile. Da qui la tendenza «storica» ad affrontare il tema della disoccupazione in chiave strumentale e propagandistica da parte dei governi. Infine, il terzo asse su cui si sviluppa il saggio riflette sulla necessità di sistematizzare il fenomeno della disoccupazione, attraverso la sua definizione e rappresentazione statistica.
I liberali italiani, tra cui Cavour e Cattaneo, durante la seconda metà dell’Ottocento consideravano la disoccupazione un fenomeno naturale a cui far fronte, eventualmente, con dosi variabili di beneficienza. L’assenza di lavoro non fu considerata tema politico d’interesse fino alla stagnazione di «fine secolo», men che meno lo fu il diritto al lavoro. Risalgono all’età liberale le prime indagini volte a quantificare e definire il fenomeno della disoccupazione e lo status di disoccupato. Sul versante dei diritti sociali, soltanto a seguito della Prima Guerra Mondiale fu istituito l’Ufficio per il collocamento e la disoccupazione, seguito, nel 1919, dall’introduzione dell’indennità contro la disoccupazione.
Nello stesso anno Fiom e Associazione Nazionale industriali metalmeccanici firmarono l’accordo sulla riduzione della giornata lavorativa a otto ore, che tuttavia non placò il conflitto sociale in atto. Con il fascismo, le timide conquiste dei lavoratori vennero meno: l’indennità di disoccupazione fu abolita per i lavoratori del settore agricolo; i salari diminuirono.
Il sistema economico era in continua trasformazione, ma l’industrializzazione di tipo fordista in Italia continuava a speculare su bassi salari, mostrandosi riluttante allo sviluppo tecnico, come notò Antonio Gramsci. Dopo la Seconda Guerra mondiale, che grazie all’industria bellica era riuscita ad assorbire parte della disoccupazione, i padri costituenti riconobbero nel lavoro un ingrediente indispensabile per la tenuta democratica. Ma solo negli anni Sessanta, la riduzione della disoccupazione interna fu possibile grazie a un rinnovato approccio di tipo keynesiano, in cui lo Stato assunse concretamente un ruolo di programmazione e protagonista attivo nell’economia. Non durò a lungo: a un decennio di distanza dal riconoscimento dello Statuto dei Lavoratori, tornò il mito della superiorità del mercato e del profitto quale motore della crescita. Il progresso materiale e sociale dei lavoratori fu da allora sacrificato sull’altare della crescita.
Agli inizi degli anni Ottanta, insieme all’arretramento del ruolo dello Stato nell’economia, prende avvio il processo di deregolamentazione del mercato del lavoro, culminato con il Jobs Act, che sancisce una ridefinizione dei diritti del lavoro in una cornice restrittiva. Oggi come più di un secolo fa, riemerge la necessità di definire lo stato di disoccupato, in un contesto produttivo e normativo in cui l’instabilità lavorativa, nonché il riaffermarsi del fenomeno dei working poor sono ormai istituzionalizzati. Una questione politica che sembra non scalfire i recenti governi, interessati maggiormente ad assecondare quel settore privato che ha scelto di «fare sedie, scarpe e stracci eleganti, rinunciando alla chimica, all’elettronica, all’aeronautica e ora persino all’industria dell’automobile». Così, inerme, l’Italia avalla la decisione delle istituzioni internazionali che le attribuiscono un tasso di disoccupazione naturale, ineluttabile, dell’11%.
Fonte: il manifesto
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