di Gaetano Azzariti
Dopo il referendum del giugno 2011 la questione dell’acqua-bene comune non ha avuto un seguito legislativo. Anzi, le misure concernenti il servizio idrico poste in essere dai governi che si sono succeduti – da Berlusconi a Renzi – hanno tutte teso a favorire la privatizzazione del settore, in contrasto con la volontà espressa dalla maggioranza del corpo elettorale. Tant’è che è dovuta persino intervenire la Corte costituzionale per ricordare il divieto di reintrodurre la normativa abrogata per via referendaria (sent. 199 del 2012).
Ciononostante non è venuta meno la caparbia volontà dei governi di privatizzare il servizio idrico.
Da un lato il testo unico sui servizi pubblici locali, attuativa della delega contenuta nella legge Madia (124 del 2015), dall’altro la modifica operata in sede di Commissione parlamentare del disegno di legge «sulla tutela, il governo e la gestione pubblica delle acque», mostra l’impermeabilità dell’attuale maggioranza, che non ritiene di poter concedere nulla al «popolo sovrano».
Gli argomenti utilizzati per cercare di giustificare le politiche privatizzatrici sono principalmente due.
Da un lato, una presunta necessità di adeguarsi alla normativa internazionale ed europea, dall’altro l’esigenza di garantire una qualità del servizio che unicamente una gestione favorevole ai soggetti privati sarebbe in grado di assicurare. Motivazioni entrambe ingannevoli.
Infatti, differentemente da quanto si viene affermando, deve riconoscersi che la consapevolezza della natura particolare del bene acqua fa ormai parte integrante del patrimonio culturale dell’umanità.
Lo dimostrano una quantità di documenti internazionali, di natura diversa ma che evidenziano tutti la necessità di garantire l’accesso e la disponibilità all’acqua per soddisfare bisogni sia individuali sia collettivi incomprimibili. Così, la risoluzione Onu del luglio 2010, approvata anche dall’Italia, che ha qualificato il diritto all’accesso all’acqua come diritto umano, universale, indivisibile e imprescrittibile. Ma poi: il Clean Water Act Usa del 1972, il Water Act indiano del 1974, il protocollo II, aggiuntivo alla convenzione di Ginevra del 1977, la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia del 1989, la Carta africana sul benessere dei bambini del 1990. Mentre il mondo sta assumendo la consapevolezza della natura extracommercium del bene comune-acqua, il nostro Paese si attarda in difesa di una ormai superata distinzione tra proprietà pubblica del bene e gestione privata del servizio.
Né, nel nostro caso, può essere spesa la retorica dell’obbligo dell’Unione.
Infatti, persino l’Europa, notoriamente molto sensibile alle ragioni della concorrenza, ammette che essa non può essere imposta agli Stati nel campo dei servizi di interesse generale (dunque anche del servizio idrico). In questi particolari casi spetta ai singoli Stati organizzare i servizi, impregiudicate le modalità pubbliche o di affidamento a terzi della gestione.
Inoltre, con la Direttiva n. 60 del 2000, adottata dal Parlamento europeo con il concerto della Commissione, si è affermato espressamente che «l’acqua non è un prodotto commerciale al pari degli altri», e che dunque va protetto e difeso come patrimonio in sé («trattato come tale»). Esattamente quel che in Italia non si vuole accettare.
Può allora affermarsi che una pubblicizzazione integrale dei sevizi idrici sarebbe non solo conforme ma si adeguerebbe alla consapevolezza ormai diffusa nella cultura internazionale, in quella europea, nel solco dell’esito referendario svoltosi in Italia.
Il secondo argomento utilizzato nel dibattito politico italiano è quello della qualità del servizio che solo i privati potrebbero assicurare.
In questo caso appare evidente il pregiudizio: la privatizzazione è necessariamente un bene, mentre ricondurre al pubblico la gestione di un servizio sociale risulta inevitabilmente un male. È ciò, a mio avviso, che impedisce di individuare una soluzione congeniale alla particolarità del bene che deve essere gestito e del servizio che deve essere garantito.
Se si considera la questione dell’acqua con realismo e senza tabù ideologici, né filo pubblicistici, né filo privatistici – scontando cioè che tanto il pubblico quanto il privato possono operare bene o male a secondo delle condizioni date – deve ammettersi che non è possibile progettare un vero risanamento del nostro fragile ed arretrato servizio idrico senza il contributo determinante del pubblico.
Oltre 2,5 miliardi di metri cubi d’acqua perduto nel trasporto, una rete idrica da risanare per alcuni tratti in modo radicale e con la necessità di piani d’investimento fuori dalla portata di ogni società privata, ridefinizione dei piani di gestione e distribuzione dell’acqua per interi distretti idrogeografici, necessità di garantire lo sviluppo rurale, urgenza di completare la costruzione degli impianti di depurazione e antinquinanti civili e industriali, esigenza di incrementare la quantità d’acqua potabile per l’uso individuale, ma anche e parallelamente il bisogno di ridurre l’uso privato che ha portato a evidenti sprechi della risorsa idrica.
Si può pensare che così impegnativi compiti sociali possano essere ascritti alla responsabilità di società di diritto privato, fossero anche a capitale misto? E poi, perché mai dovrebbero dei privati farsi carico di così ingenti spese di risanamento? È nella natura delle società la loro propensione al profitto, dunque è nella natura delle cose che il loro orizzonte sia – debba essere – quello delle gestione del bene. Una gestione «al meglio», perché no; da svolgersi in modo efficiente, auspicabilmente; eventualmente sotto il controllo di un’Autorità indipendente, la quale dovrà istituzionalmente limitarsi a regolare il mercato e a definire le tariffe in base ai costi, non certo in forza di investimenti non imputabili come obbligo a soggetti privati. Ma, necessariamente – dentro una logica di libero commercio – al fine di trarre profitto.
Se si vuole affermare la natura extracommercium del bene acqua che è alla radice della consapevolezza ormai mondiale penso si debba seriamente considerare che solo una impegnativa scelta politica d’investimento pubblico può fornire all’Italia un adeguato servizio idrico nazionale.
Un’ultima obiezione viene avanzata: dove si trovano i soldi per una così impegnativa politica di risanamento? Anche qui è opportuno sfatare un pregiudizio.
Prerogativa dei beni extra commercium, infatti, non è quella di essere contra commercium, bensì beni strumentali allo sviluppo delle persone, ma anche alle attività delle persone; incluse quelle economiche.
Forse sarebbe un bene cominciare a interrogarsi non solo sui costi ma anche sui vantaggi: quali benefici si potranno ottenere in termini di sviluppo da una rete idrica risanata, quanto se ne avvantaggerebbero – oltre agli individui – le imprese, in termini di riduzione dei costi, anzitutto di quelli energetici? Magari scopriremmo che risanare la rete idrica e ridurre le tariffe è un vantaggio anche dal lato dell’economia di mercato.
Fonte: il manifesto
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