di Daniele Archibugi
Il cielo si sta popolando sempre di più di oggetti volanti inanimati. GliUnmanned Aerial Vehicles, battezzati UAV con un gergo amichevole che li rende familiari quasi quanto i SUV (Sport Utility Vehicles), meglio noti come droni, raccolgono informazioni metereologiche, consegnano pacchi, scattano foto turistiche e a breve sostituiranno i postini. Ma i droni hanno anche una ben più inquietante funzione: sono utilizzati come moderni boia ad alta tecnologia. Una delle ultime volte che li abbiamo visti in azione è stato sui cieli della Somalia dieci giorni fa.
A 120 miglia a nord di Mogadiscio, in un attacco d’inusuali proporzioni per distruggere un presunto campo di addestramento di terroristi. Non si sa quanti degli individui “rimossi” siano realmente terroristi e quanti, invece, persone che si trovavano nel posto sbagliato. Nessuno ha protestato.
Perché il loro impiego è stato passivamente metabolizzato, diventando una routine alla quale ci si è abituati per indifferenza e per mancanza di informazioni. Sappiamo per certo che gli Stati uniti, insieme a Gran Bretagna e Israele, utilizzano i droni per “cancellare”, “eliminare”, “ritirare” individui che sono sospetti di terrorismo o di collaborazioni con i terroristi. Si usano tanti eufemismi perché i termini veri, ossia assassinare, ammazzare, uccidere, fanno paura. Perché l’uso di sofisticatissime e costosissime apparecchiature pone queste esecuzioni al di fuori di ogni ambito etico o giuridico.
Perché il loro impiego è stato passivamente metabolizzato, diventando una routine alla quale ci si è abituati per indifferenza e per mancanza di informazioni. Sappiamo per certo che gli Stati uniti, insieme a Gran Bretagna e Israele, utilizzano i droni per “cancellare”, “eliminare”, “ritirare” individui che sono sospetti di terrorismo o di collaborazioni con i terroristi. Si usano tanti eufemismi perché i termini veri, ossia assassinare, ammazzare, uccidere, fanno paura. Perché l’uso di sofisticatissime e costosissime apparecchiature pone queste esecuzioni al di fuori di ogni ambito etico o giuridico.
Un recente e ben documentato libro di Laurie Calhoun (We Kill Because We Can. From Soldiering to Assassination in the Drone Age, Zed Books, London, 2015) è forse l’occasione per scoperchiare questo inquietante vaso di Pandora. Nessuno raccoglie dati sul numero di operazioni e di vittime associate agli attacchi dei droni. Solamente ora Lisa Monaco, la consigliera di Barack Obama contro il terrorismo, parlando al Council for Foreign Relations il 7 marzo scorso, ha dichiarato che tra poco il governo americano renderà pubblici i dati sugli attacchi compiuti, gli obiettivi raggiunti e il numero delle vittime. E’ una richiesta da tempo avanzata dall’American Civil Liberty Union, e qualche tribunale americano ha addirittura sostenuto la richiesta, ma finora le ragioni della sicurezza hanno fatto prevalere l’omertà. I giornalisti investigativi di Intercept sono riusciti a scovare qualche documento e solo per questo sono a rischio di procedimenti giudiziari, come Julian Assange e Edward Snowden.
Si è scoperto così che c’è una lunga kill-chain, almeno negli Stati uniti, prima che una persona sia inserita nella kill-list. Potrebbe essere un film di Quentin Tarantino se all’apice della lista non ci fosse la bella Beatrix Kiddo, ma addirittura il Presidente degli Stati Uniti. Eppure, il vertice della catena non corrisponde alla base: le delazioni provengono spesso da informatori che, per pochi dollari, sono disposti a dichiarare qualsiasi cosa. Le operazioni sono approvate da governi di paesi sull’orlo del fallimento, come lo Yemen, o del tutto allo sfascio, come la Somalia, o in preda a periodici attacchi terroristici, come il Pakistan. Paesi troppo deboli perché arrestino e processino un sospettato di terrorismo, ma abbastanza codardi per consentire che un altro paese esegua le condanne a morte per conto loro. Una volta identificato quale sia l’obiettivo, entrano in azione le più sofisticate tecnologie: invisibili all’occhio nudo, l’ignaro condannato a morte è seguito per giorni e giorni, a volte addirittura per sessanta giorni.
Dopo questa fase, entra in azione il carnefice. A differenza dei colleghi del braccio della morte, questi individui sono molto qualificati, ingegneri informatici formati con i più avanzati video-giochi. A migliaia di chilometri di distanza dall’obiettivo, di fronte ad una consolle avanguardistica, sulla quale non mancherà né una bevanda calda di Starbucks né la foto di una sorridente fidanzata, scelgono il momento opportuno per spedire dal drone un proiettile d’avanguardia che in pochi secondi raggiunge l’obiettivo. Devono essere piloti abilissimi e vincerebbero qualsiasi torneo di play-station. La loro abilità è anche quella di evitare danni collaterali. Le stime, avvolte nell’incertezza, parlano di circa un 25 per cento vittime innocenti, in altre parole un morto ignaro ogni quattro obiettivi raggiunti. Dopo aver colpito devono sorvolare nuovamente la zona, aspettando che si diradi la polvere prodotta dal loro ordigno. E devono osservare dal cielo gli arti che hanno reciso e gli ultimi sospiri di chi hanno ucciso.
Il giornalista William Langewiesche ci ha detto che questi killer avvolti nella solitudine soffrono quanto i cecchini, costringendo il loro datore di lavoro a spendere anche per assistenza psicologica.
Chi giustifica questi interventi sostiene che le uccisioni mirate sono una delle più precise forme di combattimento; bombardamenti aerei, cannoneggiamenti e finanche sparatorie generano “danni collaterali” molto superiori. I rischi per chi li compie sono inesistenti e promettono che grazie ai droni siamo tutti più sicuri. Eppure, c’è qualcosa di profondamente disturbante in questo anonimo assassinio condotto con assoluta precisione tecnica e nella giungla etica e giuridica. Nessuno si assume responsabilità, tanto che né la vittima né i suoi parenti sapranno mai chi e perché ha polverizzato il loro congiunto.
Eppure, le esecuzioni extra-giudiziarie – sia dei combattenti e ancora di più dei non combattenti – sono vietate da secoli dal diritto internazionale. Nonostante il sostegno bipartisan tanto dall’amministrazione repubblicana di George Bush che da quella democratica di Barack Obama, negli stessi Stati uniti si è levata la voce dell’ex Presidente Jimmy Carter, che dalle colonne del New York Times ha denunciato il programma di uccisioni dalle stelle rivendicando la tradizione americana dei diritti umani sorta a Norimberga: i nemici si giudicano di fronte ad un tribunale. Il relatore delle Nazioni Unite per le esecuzioni sommarie ha denunciato all’Assemblea Generale i droni come omicidio extra-giudiziario. Nei cieli i droni rintracciano i loro obiettivi e la stessa Lisa Monaco ha confermato che le esecuzioni continueranno imperterrite anche nei prossimi anni. I boia-piloti sono soli quanto i governi che gli ordinano di uccidere.
Fonte: il manifesto
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