di Lelio Demichelis
La rete? Vive del mito di se stessa, è pedagogica, autoreferenziale, religiosa, totalitaria. Ed è il nuovo sovrano del mondo. Non è solo questo, ovviamente: ma ciò che è certo è che non è solo una macchina (semmai un apparato tecnico o un sistema tecnico), e che anche la sua forma tecnica ed economica(come scriveva Günther Anders a proposito appunto della tecnica) si è sovra-imposta alle forme sociali, imponendoci di adattarci all’apparato vivendo in forme, e con norme, tecniche.
Se questo è soprattutto la rete, allora ogni pensiero critico è benvenuto. E dunque: un caldo benvenuto a questo Anime elettriche, il nuovo saggio di Ippolita: un gruppo che fa reality hacking dal 2005, svolge una preziosa opera di ricerca interdisciplinare (e azione diretta) sulle tecnologie del dominio e i loro effetti e, soprattutto, fa critica sulla rete e della rete senza demonizzare la rete, perché «non siamo né apocalittici né integrati, semplicemente il nostro è un amore pieno di consapevolezza».
E con questo nuovo, denso ma godibilissimo saggio aggiungono un importante elemento di riflessione ai precedenti Open non è free. Comunità digitali tra etica hacker e mercato globale (Eleuthera 2005), Luci e ombre di Google. Futuro e passato nell’industria dei metadati (Feltrinelli 2007), Nell’acquario di Facebook. La resistibile ascesa dell’anarco-capitalismo (Ledizioni 2012) eLa rete è libera e democratica. Falso! (Laterza 2014).
E con questo nuovo, denso ma godibilissimo saggio aggiungono un importante elemento di riflessione ai precedenti Open non è free. Comunità digitali tra etica hacker e mercato globale (Eleuthera 2005), Luci e ombre di Google. Futuro e passato nell’industria dei metadati (Feltrinelli 2007), Nell’acquario di Facebook. La resistibile ascesa dell’anarco-capitalismo (Ledizioni 2012) eLa rete è libera e democratica. Falso! (Laterza 2014).
Questa volta, «invece di fare un giro dentro la sala macchine» – ovvero neinuovi oggetti (o soggetti?) tecnologici della rete – Ippolita «lo fa dentro l’utente, nelle viscere delle emozioni esposte, dove si riconfigurano i confini delle identità individuali e collettive, le relazioni tra mente, corpo e appunto anima». Perché ormai la rete di massa «implica l’azione diretta degli apparati tecnologici sulle emozioni, gli immaginari, i rituali inconsci e il sistema neuro-cognitivo».
Il nuovo percorso di ricerca transita così per diversi luoghi intellettuali. Partiamo da quello – definito assai efficacemente – della pornografia emotiva o pornografia 2.0, dove l’intimità viene (deve essere) es-posta per la normalizzazione di ciascuno al dispositivo di comando, attraverso la morte della (sua) privacy. L’obiettivo dell’apparato – ottenere la trasparenza assoluta di ciascuno – è produrre soggetti che siano, scrive Ippolita, machine readable, cioè intelligibili all’apparato delle macchine, per cui la pornografia emotiva è di facile attivazione anche perché strettamente legata «al piacere e al senso di vulnerabilità» che bene si inserisce nei social, per i quali l’attività fondamentale consiste «nelmostrarci e toccarci reciprocamente». Una delle più antiche forme di socialità, certo, ma oggi prodotta dalle macchine: dove «la luce accecante che illumina le intimità e i primi piani del corpo pornografico fa da contraltare all’intimità oscura che abita coloro che praticano l’oscenità interiore. E l’iperrealismo delle merci sventagliate sui banchi dei supermercati ha la stessa radice dell’iperrealismo tipico della pornografia sessuale commerciale».
Secondo luogo di analisi, quello della profilazione e del data miningperché, «che la si chiami economia delle identità o comportamentale, economia della condivisione o del dono, si parla sempre della stessa cosa: estrarre valore economico dalla capacità umana di incontrarsi, comunicare, mostrarsi, generare senso e articolare la complessità dei legami sociali»; e ancora: «quello dei network commerciali è un interrogatorio svolto in maniera morbida e confortevole, esercitando unosmart power: la popolazione vi si sottopone con gioia, felice di schedarsi in cambio del servizio gratuito»; e quindi, l’analisi del concetto di maschera e di metamorfosi (con molti link a Elias Canetti di Massa e potere), per produrre quell’ipercoerenza narrativa richiesta per la propria normalizzazione e per incrementare il proprio «capitale reputazionale», arrivando al self branding, alla promozione del sé nei contesti social.
E ancora: il luogo di pratiche di auto-svelamento della privacy attraverso esercizi quotidiani, spesso compulsivi e automatici davanti al panopticon virtuale e diventate – secondo Ippolita e attraverso le riflessioni dell’ultimo Foucault – pratiche estreme di confessione, come agli inizi della cristianità: confermandosi la discendenza religiosa o pastorale non solo del potere politico moderno (Foucault ancora), ma anche – aggiungiamo – della tecnica, per cui «la ricerca della verità del sé è diventata progressivamente uno strumento di addestramento e perfino didomesticazione politica», posto che essenza di ogni organizzazione e di ogni apparato è (anche) quella del controllo e dell’immedesimazione di ciascuno con l’organizzazione/potere in cui è inserito e con i suoi fini. Tanto più necessaria e personalizzata/individualizzata quanto più cresce la complessità dell’organizzazione-apparato; e dove l’obbedienza si esplicita non più verso un direttore spirituale ma «la funzione guida è unhabit loop, un rito dell’abitudine: il segnale innesca una routine che produce una gratificazione», per cui i comportamenti da apprendere sono determinati da quelli di maggiore successo e insieme dalle regole del sistema, che diventa iperconfessionale.
E ancora (ma tutto si tiene): l’analisi di come i network commerciali «ricostruiscono l’unità somato-psichica dell’individuo, a partire da una sua copia estrapolata dai dati che ogni giorno riversiamo sulle piattaforme di condivisione confessionali», portandoci a creare un alter ego «nel quale rispecchiarci come in una versione ben riuscita di noi stessi»; peccato che poi «il nostro gemello digitale ci supera, sfugge alle nostre velleità di controllo emotivo e narrativo. La sua genesi, infatti non è autonoma: lo creiamo sulla base dell’ideologia inscritta nell’ergonomia del servizio, ovvero seguendo le regole implicite secondo cui è stata progettata idealmente l’interazione umano-macchina». Per cui in rete operano e agiscono «pulsioni metafisiche che plasmano i confini della nostra anima digitale. E si manifesta il desiderio della tecnologia di sostituirsi alla religione, la volontà di organizzare l’esperienza in un complesso di liturgie e precetti, mai espliciti, che diventano comandi e a cui obbediamo inconsapevoli, ordini saldamente aggrappati alla memoria procedurale. In questo modo, ognuno può continuare a sentirsi libero mentre esegue un programma di esercizi di delega cognitiva, ovvero sociale, psichica, vitale. I servizi del web sociale infatti si prendono cura di noi, migliorando le nostre possibilità di lavoro, salute, interazione emotiva e sessuale, tendono a liberarci dal peso del corpo e dalla fatica dell’organizzazione e quindi dalla scelta e quindi dalla libertà». Producendo un’illusione di libertà e di autonomia basata però su un’incessante allusione alla libertà. Dove fortissima è l’osservanza di specifici rituali che nella nostra civiltà digitale sono dettati da algoritmi: perché se è vero che «nella cura di sé la ripetizione consapevole ha un ruolo fondamentale, delegarla sotto forma di cicli ritualizzati è il metodo della servitù volontaria». Rituali 2.0 per unaliturgia 2.0.
I social commerciali sono dunque diventati, scrive Ippolita, «macchine per formare soggetti. O strumenti per disegnare caratteri. In ogni caso si tratta di sistemi di apprendimento basati sull’addestramento tramite risposte indotte, per creare automatismi performativi». E tuttavia, ci sarebbero vie d’uscita, la rete non è solo questo, l’obbedienza e l’asservimento non sono ineluttabili. Come? Attivando processi riflessivi e uno sguardo eccentricosulla realtà, da antropologi di se stessi. Difficile e faticoso, certo; ma «una figura che ben si addice a questa idea di autonomia è quella del monaco zen». Il come e il perché lo lasciamo scoprire ai lettori eccentrici.
Fonte: Alfabeta2
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