di Alfredo Reichlin
La rissa non mi piace e non serve a nessuno. Penso che la classe dirigente (governo e opposizione) debba molto ragionare sulle responsabilità che si deve assumere. Perché, piaccia o non piaccia, sono i fatti che costringono a riconsiderare profondamente l’ordine non solo economico ma sociale e civile sul quale l’Italia da decenni poggia. Pensiamo solo all’ondata migratoria che si abbatte sull’Europa e alle sue conseguenze sulle nostre vite. Oppure ai cambiamenti che imporrà la nuova rivoluzione scientifico‐tecnologica. E’ evidente la necessità di ripensare il ruolo stesso della politica. Non sono un’”anima bella”, non mi scandalizza il gioco del potere.
Ma è tempo – credo – di ripensare la politica come “polis”, cioè come strumento che include, che dà una coscienza di sé anche a quelli che “stanno sotto” e che da anni non partecipano più nemmeno al dibattito pubblico.
Altrimenti, il paese non sa bene chi è. Bisogna ritrovare il senso di un cammino e di una guida. Anche morale. È quindi molto importante, e giusto, che il governo abbia messo in campo una riforma di rango costituzionale.
Altrimenti, il paese non sa bene chi è. Bisogna ritrovare il senso di un cammino e di una guida. Anche morale. È quindi molto importante, e giusto, che il governo abbia messo in campo una riforma di rango costituzionale.
Mi chiedo però: noi che discussione vogliamo fare? Certamente, discuteremo sulla fine del bicameralismo e su quel che resta del Senato, così come su tante altre cose, positive e negative. Ma stiamo attenti a non ridurre tutto a un plebiscito sulla persona di colui che non è il Capo di uno Stato presidenziale ma è tuttora un presidente del consiglio pro-tempore espresso cioè da una maggioranza parlamentare. Il rischio è che in questo modo il Parlamento sarà un guscio vuoto. Che discussione vogliamo fare? Io penso che l’Italia ha bisogno di una rivoluzione democratica e che questo sia il compito storicopolitico del PD Che cosa voglio dire con l’espressione “rivoluzione democratica?” Dico che occorre un cambiamento forte non solo del lavoro ma del ruolo dei giovani e delle forze produttive e intellettuali.
Dico che deve cambiare l’attuale rapporto tra dirigenti e diretti. L’esempio è ciò che avvenne con la caduta del fascismo. Ricordo che alla base della Repubblica si collocò una democrazia “che si organizza”, cioè una democrazia che non consisteva solo nel riconoscimento dei diritti dell’uomo e nella libertà di voto e di opinione. Era l’avvento sulla scena di nuovi protagonisti: gli esclusi, gli sfruttati, il Mezzogiorno contadino.
Bisognerebbe raccontare il rapporto di uomini come Napolitano con gli operai dell’Italsider. Questa democrazia non affermava solo l’uguaglianza dei diritti ma un diritto nuovo, quello delle masse lavoratrici di essere messe in grado di partecipare alla “organizzazione politica, economica e sociale” del Paese. Io penso che questa era la sostanza della Costituzione repubblicana: era la “democrazia dei partiti”. Si rompeva l’antico equilibrio tra individui e politica, si andava oltre l’idea vetero-liberale di una comunità fondata sul contratto di cittadinanza come puro contratto tra singoli individui.
Si inaugurava una nuova costituzione materiale in cui cittadinanza e rappresentanza si realizzavano attraverso la formazione di identità collettiva. Attenzione: questo vorrei dire anche agli economisti. Fu questa grande trasformazione della politica in democrazia dei partiti, cioè nella formazione di una nuova soggettività collettiva, il fattore che costituì le premesse socio-economiche del balzo in avanti dell’Italia, il cosiddetto “miracolo italiano”. È stato grazie a ciò che, nonostante il blocco imposto dalla guerra fredda alle alternative di governo, cambiò qualcosa di profondo. So bene quanto ha poi pesato la democrazia “incompiuta” e misuro le responsabilità storiche del PCI e della sinistra.
Ma su quel rapporto tra politica e popolo conviene tornare a riflettere. “Roba vecchia”? Dunque, che discussione vogliamo fare? Non mi stupisce affatto la difesa che fa Giorgio Napolitano delle riforme proposte dal governo. Sono posizioni che egli, insieme a tanti altri, sostiene da tempo e che, dopotutto, hanno ricevuto anche il voto – sia pure travagliato e poco convinto – della minoranza del PD. Non entro qui nel merito. Se ne discuterà ancora. Ciò che però mi colpisce è l’argomento con cui questa riforma viene difesa appassionatamente. Come se si trattasse – finalmente – di una grande novità, nel senso di una svolta rispetto al conservatorismo della sinistra di questi anni.
Questo conservatorismo c’è stato ma francamente la catastrofe della sinistra è dipesa dalla incapacità di dare una risposta nuova alle sfide cruciali di questi anni. Vedi Tony Blair. Dove sta la grande novità di oggi? Nella ulteriore concentrazione del potere? È proprio questo che a me sembra una illusione. Stiamo attenti a non chiudere gli occhi di fronte alla drammatica crisi della politica e della democrazia quale era stata costruita dalla civiltà europea. Il lavoro, la cittadinanza, l’uguaglianza. Chi è il Sovrano? Chi comanda? Chi prende le grandi decisioni e dove? Sta qui la ragione della perdita di identità da parte di grandi masse, sta nell’enorme frattura che si è creata tra la gente e la politica.
Si illudono quei dirigenti che pensano di governare concentrando su di sé ciò che resta del potere dello Stato e non possiamo lasciare che l’attuale sistema informativo detti l’agenda del Paese. Il quale sistema, con le dovute eccezioni, è la causa principale del diffondersi di una sorta di pensiero “unico”: tra destra e sinistra non c’è differenza, la politica è corruzione, l’uguaglianza non è un valore, i partiti, i sindacati e le associazioni sono solo di impaccio. Ciò che conta è “l’uomo solo al comando”. Ecco perché, io non vedo la grande novità rispetto al passato. Dov’è la svolta che sarebbe a mio parere necessaria? Io non voglio mettere i bastoni tra le ruote del governo, e capisco il realismo politico.
Però se non ora quando vogliamo dire finalmente a un paese confuso e diviso che il problema dei problemi è che la politica torni ad essere in grado di produrre il fattore necessario per lo “stare insieme”? Sono le forme della sovranità e del legame sociale che vanno urgentemente ridefinite. La questione che si è aperta la definirei così: le sfide poste dalla crescente integrazione globale spingono verso la nascita di soggettività più grandi, scavalcano i vecchi partiti e il vecchio Stato-nazione, ma anche e soprattutto richiedono tessiture nuove tra politica, cultura, istituzioni ed economia. Qui sta – a me sembra – il cuore delle questioni su cui bisognerebbe aprire una discussione. È entrata in scena una nuova umanità a cui bisogna dare una guida. Da questo punto di vista mi è molto piaciuto un recente incontro coni giovani del PD nella scuola di formazione politica.
Ecco perché mi sono permesso di chiamare in causa Giorgio Napolitano. Perché c’è un grande bisogno di uomini che parlino “alto” ed egli è tra i pochi che possono farlo ed essere ascoltati. La politica non è lo schiamazzo di questo eterno presente. Le speranze di futuro per la democrazia italiana stanno anche nelle esperienze e nelle lotte del passato.
Fonte: L'Unità
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