di Alessandro Gazoia
Dov’eri l’8 settembre 1943, quando Badoglio annunciò l’armistizio concesso da Eisenhower (dal «generale Aisenòver», disse alla radio)? Dov’eri il 22 novembre 1963, quando uccisero Kennedy? Dov’eri il 16 marzo 1978, quando rapirono Moro? Da quasi un secolo la memoria collettiva si organizza intorno a eventi mediati dalle comunicazioni di massa: «Dov’eri l’11 settembre 2001 quando colpirono le Torri?» è la forma abbreviata di «Dov’eri quando hai saputo dell’attacco alle Torri Gemelle dalla radio, dalla tv, da internet o da qualcuno già informato attraverso quei mezzi?» Diamo per scontato che la notizia sia giunta in breve tempo ovunque e la curiosità si sposta su come quell’evento, tanto potente in sé e nella sua comunicazione, abbia interrotto il corso della vita normale di ognuno. Ci scambiamo i racconti, curiosi di conoscere come la piccola storia personale o familiare si sia unita con la Storia (con la prima provvisoria versione della Storia).
Tua madre dice di aver sentito di Moro alla radio, mentre tuo padre racconta che macchine con altoparlanti – forse dei sindacati (non ricorda bene) – girarono per la città annunciando il rapimento. Tu non eri ancora nato e pensi che quella forma nostalgica e rudimentale di comunicazione amplificata fece arrivare l’informazione nelle case tramite le onde acustiche dalle finestre, proprio come fanno le onde elettromagnetiche attraverso l’antenna televisiva. E pensi che oggi Matteo Renzi, la CGIL, Il Corriere della Sera e tuo padre farebbero un tweet e un post su Facebook o su un altro social network, e tu lo leggeresti con lo smartphone.1
I media, anche quando in diretta (una trasmissione televisiva dal vivo) e in tempo reale (un sito web aggiornato di continuo) sono necessariamente in ritardo sui grandi eventi imprevisti – spesso luttuosi – e uno schema molto comune in questo crisis reporting vede l’imporsi di una narrazione coerente al proprio interno, con una rincorsa alla determinazione dei fatti e alla ricostruzione delle cause e un’attenzione continua agli sviluppi e alle conseguenze. L’11 settembre 2001, subito dopo l’impatto di un aereo contro la Torre Nord, radio e tv locali e pure la rete all news CNN diedero le prime informazioni; passati venti minuti milioni di americani guardarono in diretta sui principali network un secondo aereo schiantarsi contro la Torre Sud e a quel punto s’impose fortissima l’idea di un attacco terroristico.
In questi processi l’osservatore giornalista non è del tutto esterno o neutro, ma influenza, modifica e perturba i «dati osservati»: le virgolette segnalano che questi ultimi sono, direttamente o indirettamente, materia di contrattazione informativa nella loro resa, come fatti socializzati in uno spazio pubblico, mentre non si vuole affatto intendere che «non c’è differenza tra fatti e opinioni». Frequentemente vi sono più narrazioni in competizione tra loro e non sempre si arriva a un consenso generale o almeno largo: anzi, proprio per i grandi eventi imprevisti non manca mai un filone «complottista», che rifiuta la «verità ufficiale» e, nel corso del tempo, può rimanere minoritario (per l’11 settembre) oppure guadagnare ampio seguito e credito (questo è accaduto per la morte di Kennedy e per il rapimento di Moro).
Inoltre, ormai quasi senza eccezioni, il pubblico diventa temporaneamente e parzialmente giornalista, grazie alla possibilità consentita dalle nuove tecnologie di produrre e diffondere all’istante foto, video, audio, testi dell’evento. Durante gli attentati terroristici a Londra del 7 luglio 2005 la BBC si accorse che per la prima volta la sua copertura dei fatti era non semplicemente assistita ma persino orientata dai materiali del pubblico. Una foto presa alla stazione della metropolitana di King’s Cross con un cellulare e inviata per email da uno dei sopravvissuti all’attentato, Alexander Chadwick, divenne il simbolo della giornata e di un mutamento profondo: Richard Sambrook, ex direttore di BBC Global News, parlò di «passaggio del Rubicone».2 Oggi al «Dov’eri tu?» per i grandi eventi imprevisti, alla domanda collettiva che rimbalza subito sui social media, qualcuno del pubblico risponde mostrando il proprio filmato registrato dal vivo. Il singolo cineamatore tra la folla che riprende l’omicidio del presidente Kennedy, l’Abraham Zapruder con la sua cinepresa 8 millimetri, si è moltiplicato in ogni cittadino dotato di smartphone. E pure questi materiali vengono vagliati e contrattati nel loro valore e significato.
I grandi eventi previsti sono, al contrario, programmati e costruiti attraverso i media, illuminati in diretta per il pubblico, presente a distanza sui mezzi di comunicazione; inoltre, tutti gli attori coinvolti – professionisti dell’informazione e protagonisti – ne sono ben consapevoli. Denis McQuail illustra le condizioni che definiscono questi media events: «Eventi inusuali di grande importanza storica o simbolica, come incoronazioni o visite di Stato: copertura live; sponsorizzazione al di fuori dei media; alto grado di pianificazione; disciplina e rispetto della forma nella loro presentazione; enfasi nella condivisione e celebrazione nazionale; e un interesse per un pubblico ampio (spesso internazionale)».3Nella nostra società sono di rado funesti: il matrimonio di William d’Inghilterra e Kate Middleton va in diretta in mondovisione, la morte di Saddam Hussein – il dittatore che un’interpretazione politica e giornalistica delirante e dominante, «complottista» dall’alto, aveva chiamato a correo per l’11 settembre e dotato magicamente di armi di distruzione di massa – ha la differita del fatto compiuto. Anzi, il filmato ufficiale è privo di audio e si ferma un attimo prima dell’esecuzione, ma un cellulare riprese l’intera scena dell’impiccagione e le immagini vennero diffuse su internet.
La risposta italiana più frequente al «dov’eri tu?» per eventi annunciati degli scorsi decenni come l’atterraggio sulla Luna (1969), la finale dei mondiali di calcio in Spagna (1982) e pure quella in Germania (2006) è naturalmente: «Ero davanti al televisore». Ancora oggi la grande audience, che nell’era dei new e social media a volte si tende a dichiarare scomparsa o sparsa in mille piccole nicchie, si ricompatta in occasione di appuntamenti quali Olimpiadi e nozze reali, ma aumentano i modi di fruizione con canali e forme diversificate, come Twitter, un secondo schermo dove l’avvenimento viene ricreato attraverso un flusso continuo di materiali e commenti.
Negli eventi naturali inaspettati manca una volontà di spettacolarizzazione mediatica da parte dei fattori causali – il terremoto non cerca visibilità – anche se il trattamento giornalistico talvolta presta loro intenzioni comunicative e li struttura come un racconto morale: la collina frana per l’abbondantissima pioggia e dunque «la natura si ribella» (il titolo non è privo di giustificazioni quando la collina è devastata dalla speculazione edilizia). Al contrario, avvenimenti imprevisti e provocati direttamente dall’uomo, in primo luogo atti come il sequestro Moro o l’attacco alle Torri Gemelle, hanno spesso una forte volontà di comunicazione, anzi di manipolazione della comunicazione, che si incontra e scontra in vari modi con il giornalismo e quindi con l’opinione pubblica. Il gesto terrorista costituisce anche una presa di parola, rompe con violenza il filtro della comunicazione, sia quello dei media tradizionali sia, oggi, quello dei social media.
Brian McNair, nel suo Political Communication, premette che terrorista è un «termine valutativo» sotto il quale si comprendono – in contesti storici e politici distinti – persone, organizzazioni e persino Stati molto diversi tra loro. Inoltre terrorista è sempre l’altro: l’autorappresentazione di chi viene così nominato è quella di combattente per la libertà, partigiano, resistente (infine, aggiungo, il terrorista di oggi regolarmente diventa, vincendo, il presidente democratico di domani e il partigiano di ieri, almeno per una certa comunità). Lo studioso individua quindi il rapporto di dipendenza essenziale che lega il terrorismo alla comunicazione sui mass media:
Come tutte le forme di comunicazione politica […] il terrorismo può avere un significato come atto comunicativo solo se è trasmesso dai mass media al pubblico. Fino a quando non è raccontato, l’atto terroristico non ha visibilità, e perciò non ha significato sociale.4
Anche questo tipo di eventi si struttura come media event e si impone come tale con la forza. Oggi questa logica spettacolare viene portata all’estremo e messa al lavoro in più modi, seguendo molteplici flussi: le inquadrature sghembe, le immagini mosse, le testimonianze «rubate» che un occasionale passante invia subito ai social network a ogni attacco terroristico sono programmate tanto quanto le decapitazioni diffuse dall’Isis in rete con filmati «di alto valore produttivo», come i mezzi di comunicazione tradizionali amano sottolineare, fingendosi stupiti che insieme agli smartphone di Apple e a Facebook siano usati in tutto il mondo pure i software di montaggio audiovideo di Adobe.
Note
1.Pensi pure che oggi le parole dell’informazione sono in buona parte derivate o prese a prestito dall’inglese. In questo testo si tenta di evitare sia la goffaggine di termini come «cinguettio» per tweet sia la rovina di una lingua fatta di pesanti calchi e brutali prelievi. Con la consapevolezza, per rimanere a questo esempio, che il sistema complesso di hardware e software che chiamiamo smartphone non è più il telefonino, mentre il social network è davvero una rete sociale, ma bisogna spiegarlo (vedi capitolo 4).
1.Pensi pure che oggi le parole dell’informazione sono in buona parte derivate o prese a prestito dall’inglese. In questo testo si tenta di evitare sia la goffaggine di termini come «cinguettio» per tweet sia la rovina di una lingua fatta di pesanti calchi e brutali prelievi. Con la consapevolezza, per rimanere a questo esempio, che il sistema complesso di hardware e software che chiamiamo smartphone non è più il telefonino, mentre il social network è davvero una rete sociale, ma bisogna spiegarlo (vedi capitolo 4).
2 Valerie Belair-Gagnon, Social Media at the BBC New: The Re-Making of Crisis Reporting, Routledge, New York 2015, p. 1.
3 Denis McQuail, McQuail’s Mass Communication Theory (sesta edizione), Sage, Londra 2010, p. 563 (ed. it. Sociologia dei media, a cura di Gianpietro Mazzoleni, Il Mulino, Bologna 2007), la citazione viene dal glossario accluso all’edizione originale. Vedi Daniel Dayan e Elihu Katz, Media Events: The Live Broadcasting of History, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1992.
4 Brian Mc Nair, An Introduction to Political Communication, quinta edizione, Routledge, New York 2011, p. 168. Vedi anche Daniele Giglioli, All’ordine del giorno è il terrore, Bompiani, Milano 2007.
Fonte: Le parole e le cose
Originale: http://www.leparoleelecose.it/?p=22693
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