di Anna Lombroso
Certo, di questi tempi, definirsi “senza frontiere” è una credenziale di indipendenza da un pensiero più che forte muscolare, e più che autorevole, autoritario. E infatti l’annuale classifica dell’organizzazione Reporters sans Frontières gode di credibilità e, paradossalmente, di buona stampa, sicché tutti i media italiani ne pubblicano con sconcertante voluttà le graduatorie dell’infamia come se riguardassero la Gazzetta di Marte, e che quest’anno ci collocano a un vergognoso settantasettesimo posto.
E infatti secondo la pregevole rilevazione condotta su 180 soggetti, il nostro Paese si colloca agli ultimi posti nell’Unione Europea, dove, tuttavia, i giornalisti godono ancora di una maggiore tutela e autonomia rispetto al resto del mondo. Peggio di noi farebbero soltanto Cipro, Grecia e Bulgaria, meglio fanno Moldova, Nicaragua, Armenia e Lesotho.
Appena n po’ meglio della Turchia e peggio però della Francia, intoccabile malgrado vigano leggi emergenziali “temporanee” ma non tanto, che limitano le libertà, accolte benevolmente dai cittadini ricattati dall’industria di Stato della paura.
Appena n po’ meglio della Turchia e peggio però della Francia, intoccabile malgrado vigano leggi emergenziali “temporanee” ma non tanto, che limitano le libertà, accolte benevolmente dai cittadini ricattati dall’industria di Stato della paura.
Non ci sorprende il disonorevole piazzamento, ma ci sarebbe da ragionare un po’ sulle ragioni per le quali saremmo cacciati giù nell’abisso disdicevole dei cattivi, che finisce per accomunare informatori e lettori, i primi poco inclini a fare il loro mestiere, i secondi colpevoli di accontentarsi di notizie superficiali, di appagarsi di dati strillati, di farsi addomesticare da una stampa remissiva e dispensatrice di squarci di verità, quelli somministrati dalla comunicazione del regime, pillole di sonnifero scelte dal barattolo di quello che si vuol far sapere.
Ci sarebbe infatti da aspettarsi che il rapporto ci condanni per via di volontari bavagli, di deplorevoli autocensure, della inguaribile indole allo scoop, della tendenza a sparare proiettili di sdegno estemporaneo, occasionale e intermittente, della inclinazione a preferire commenti e interpretazioni personali alla erogazione di dati certi.
Ci sarebbe da attendersi che la riprovazione riguardi la condizione di ricattabilità dei giornalisti, soggetti alla gestione di editori impuri, intimiditi dalla erogazione arbitraria di fondi pubblici, condizionati dalla pressione della concorrenza pubblicitaria. Peggio, ci saremmo aspettati dagli spietati analisti una condanna a posteriori di un popolo che aveva acconsentito che diventasse premier, sia pure eletto, il padrone di tutte le tv, con una zampone dentro alla carta stampata quotidiana e settimanale, con un tallone di ferro sull’editoria, quindi in grado di interferire con elezioni ancora meno libere dell’informazione. E che oggi estendesse la deplorazione per la complicità non solo ideologica e morale di un premier, non eletto, per il processo di concentrazione che ha dato luogo a un colosso televisivo monolitico a un quotidiano al prezzo di tre, a una Stampa Unica fatta apposta per il Partito Unico del nuovo ometto della provvidenza.
Invece il 77esimo posto è dovuto alle persecuzioni cui sono soggetti i giornalisti che si occupano di inchieste giudiziarie, con particolare interesse per quelle relative alla criminalità organizzata, e quelli che hanno denunciato lo scandalo vaticano: “Il sistema giudiziario della Città del Vaticano, scrivono Reporters sans Frontières, sta perseguitando i media in connessione agli scandali Vatileaks e Vatileaks 2. Due giornalisti rischiano fino a otto anni di prigione per aver scritto libri sulla corruzione e gli intrighi all’interno della Santa Sede”.
Denuncia sacrosanta, per carità. Ma sarebbe più laico, più giusto che nell’indicare i perseguitati non si risparmiassero o persecutori, primi tra tutti quelli che tra i professionisti dell’informazione si accaniscono sulla verità e contro i cittadini, quelli che hanno perseguito una poco lodevole riservatezza e una sobria discrezione in merito a un referendum contro le lobby e i rischi dello sfruttamento delle fonti fossili, seppellendo, dopo il pronunciamento, la notizia del pericolo già consumato nelle brevi in cronaca (come osserva proprio oggi il Simplicissimus quihttps://ilsimplicissimus2.wordpress.com/2016/04/21/gli-andati-al-mare-trovano-il-petrolio/ ). O quelli che quotidianamente scoprono con stupefatta sorpresa quello di cui tutti mormorano, che tutti conoscono, di cui molti a vario titolo approfittano, dal Mose a Mafia Capitale o che credono come dei grulli e ci vogliono persuadere dei fasti del Jobs Act, della crescita in fondo al tunnel della Gelmini o del Gottardo, del prossimo milione di posti di lavoro, incuranti del ridicolo e dell’infamia.
E che dire degli uffici stampa decentrati del governo, auto-incaricatisi di fare da estatici ripetitori dei tweet del bullo, dei sospiri delle ministre, comprese di mise, lagnanze per i riottosi sanpietrini che ostacolano le loro marce trionfali, delle varie manifestazioni d’amore, erotico, filiale, paterno, mentre tacciono con encomiabile pudore di corruzione, clientelismo, familismo, finché i bubboni non scoppiano. Perché, e solo allora, si assiste alla aberrante conversione del tanto decantato giornalismo investigativo in pubblicazione entusiasta di conversazioni, in sollucchero di guardoni, che si sa è meglio dare in pasto storie di letto, retroscena di corna che dare conto di ben altri tradimenti, quelli compiuti contro la cosa pubblica, l’interesse generale, la verità. O dei press agent della paura, quelli che nutrono diffidenza, sospetto, allarme, in modo da suscitare empi sentimenti che in altri tempi sarebbero rimasti sepolti e vergognosi, in modo da nutrire sconci risentimenti, in modo da tacitare coscienze e ragione e far gridare irrazionalità, razzismo, sopraffazione.
Altro che settantasettesimo posto, questi meritano un settantasettesimo girone all’inferno.
Fonte: Il Simplicissimus
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