di Andrea Fumagalli
A fine anno, con l’avvicinarsi dell’autunno, inizia ad avviarsi il consueto balletto per l’approvazione del DEF (Documento di Economia e Finanza) al fine di stabilire il saldo e le voci del bilancio pubblico del paese. Da quando è entrato in vigore l’Euro e la politica monetaria si è accentrata nelle mani della BCE, il bilancio nazionale è oggetto di verifica e approvazione della Commissione Europa su mandato della Troika. Un tempo (il secolo scorso), l’arrivo dell’autunno faceva preludere un possibile aumento della temperatura sociale, al punto da essere denominato «Autunno caldo». Oggi invece, l’arrivo della “finanziaria” di solito prelude a una «gelata».
È evidente anche dal lessico, come siano cambiati i tempi. Negli anni Settanta la legge finanziaria era nota come Legge di bilancio, con l’obiettivo di definire appunto il bilancio pubblico per l’anno seguente e quindi fissare i paletti per l’azione di politica fiscale del governo. A partire dagli anni Novanta, da quando cioè l’Italia ha accettato il processo di risanamento del debito pubblico per poter ottemperare ai parametri sanciti dal Trattato di Maastricht, si è parlato di Legge finanziaria, e a partire dal 1992 (governo Amato, il governo della finanziaria da 90.000 miliardi di lire, all’indomani del congelamento della scala mobile), tale nome è stato associato a interventi di solito di natura draconiana. Con l’avvento dell’euro e la firma del patto di stabilità, il lessico è di nuovo cambiato. Oggi si parla di Legge di stabilità, ma il contenuto non si è modificato, anzi si è accentuato nell’imporre politiche di contenimento della spesa pubblica in nome dell’austerità.
Il cambiamento lessicale non ha tuttavia comportato nessuna rilevante modificazione della filosofia di fondo. Gli obiettivi dichiarati da vent’anni di leggi di bilancio, anno dopo anno, sono stati sempre disattesi; a riprova, forse (dubbio che da anni avrebbe dovuto diventare più che legittimo tra gli italiani se non fossero sottoposti a un costante processo di lobotomizzazione cerebrale), che l’obiettivo di fondo della legge di stabilità non è quello dichiarato, e quotidianamente propagandato, in autunno.
Gli obiettivi dichiarati a parole, in nome dei quali è lecita qualsiasi politica economica, sono sempre i soliti, con piccoli variazioni, e riducibili a due: riduzione dell’enorme debito pubblico italiano e una crescita tale da garantire un incremento dell’occupazione a scapito della disoccupazione (soprattutto giovanile). Sotto l’ombrello di questi due obiettivi, poi, si celano altri target che, a seconda della congiuntura politica, possono assumere denominazioni diverse: si va dall’incrementare l‘efficienza dell’«impresa» Italia (perseguimento di maggior produttività e competitiva del sistema economico) alla necessità di ridurre gli sprechi e i costi della politica o la riduzione dei divari territoriali.
Negli anni Ottanta, l’obiettivo della crescita e dell’occupazione avevano a parole un peso leggermente superiore di quello della riduzione del debito pubblico, anche perché si era in presenza di una politica monetaria anti-inflazionistica. Oggi, che l’inflazione non è più un problema (lo è piuttosto la deflazione), anche a seguito dell’ordoliberismo economico imperante in Europa, è la riduzione del debito pubblico (in rapporto al PIL) a costituire il target principale della legge di stabilità.
Ma le cose stanno proprio così? Siamo degli alieni, noi della minoranza eretica, a ritenere malafede governativa quella che annuncia certi obiettivi, e a pensare che sia in atto una grande truffa?
Dopo sette anni di politica di austerity in nome della riduzione del rapporto debito/PIL, senza essere né esperti statistici né tecnici economisti, possiamo trarre un bilancio. I dati parlano da soli. Nel 2007 il rapporto debito/PIL era pari al 99,7%, anno in cui raggiunge il livello più basso, per poi salire costantemente sino al 132,6% di fine 2015. Contemporaneamente, il PIL si è ridotto di 9 punti percentuali in termini reali (considerando anche il + 0,8% del 2015) e la disoccupazione è raddoppiata dal 6,1% del 2007 sino al 12,7% del 2014, per poi calare oggi, fittiziamente (in seguito ala distorsione statistica provocata dal Jobs Act), all’11,5%.
È evidente che la riduzione del rapporto debito/PIL, la crescita economica e l’aumento dell’occupazione non si sono verificati, anzi i risultati economici sono stati tutti di segno opposto. Certo – si potrà dire – in questi anni abbiamo vissuto la recessione economica più profonda e più lunga di tutto la storia del capitalismo, superiore persino a quella della Grande Depressione. Ma le politiche di austerity non erano giustificate proprio dalla necessità di uscire dalla Grande Recessione? Non è in nome di questo obiettivo che sono stare imposte draconiane politiche di austerity in Italia, in Grecia e in quasi tutti i paesi europei, come l’unico antidoto possibile alla crisi?
In Grecia, le statistiche sono ancor più impietose dell’Italia. Le misure di austerity imposte in questi anni avrebbero dovuto mettere la Grecia sulla strada della crescita economica e della riduzione del debito. Invece, tra il 2008 e il 2016 il prodotto interno lordo è crollato di oltre il 40% (dati OECD) e il debito sul PIL si avvia a sfondare il 180% (prima della crisi ammontava a poco più della metà).
Tali risultati sono, tuttavia, del tutto scontati. Basta un semplice ragionamento, non molto difficile da comprendere, se non si è completamente obnubilati dalla propaganda di regime. La matematica elementare ci insegna che se si vuole ridurre un quoziente (in questo caso il rapporto debito/PIL) è possibile ottenere lo scopo se si riduce il numeratore (il debito pubblico) a parità di denominatore (il PIL). Ma se, per ridurre il numeratore, si attuano politiche recessive che riducono i consumi pubblici e privati (ovvero la componente principale del PIL, dal lato della domanda), l’ovvio risultato è che anche il denominatore si riduce, con l’esito che il quoziente non solo non diminuisce ma rischia, se l’impatto dell’austerity sul PIL è superiore alla riduzione del bilancio pubblico, di aumentare. Come è puntualmente accaduto.
I vari governi che si sono succeduti negli anni della crisi (da Berlusconi a Letta, da Monti sino a Renzi) ne erano perfettamente consapevoli. Come lo erano anche i più autorevoli editorialisti «tecnici» sulle prime pagine dei giornali (gli economisti Giavazzi e Alesina, i politologi Della Loggia e Panebianco, i direttori e gli ex direttori dei principali quotidiani, Scalfari, De Bortoli, Mauro, Calabresi, ecc.), a meno che non li si voglia considerare degli emeriti deficienti. La malafede è conclamata. Ed è peggio dell’ignoranza.
Tale malafede è inoltre confermata dal fatto che nello stesso periodo, al di fuori dei riflettori mediatici, alcuni obiettivi sociali e economici sono stati del tutto raggiunti, a riprova che le finalità degli interventi di politica socio-economica erano ben altri. La lista è molto lunga. Ci limitiamo a sottolineare i principali:
- Tagli di circa 1,5 miliardi in tre anni al Fondo di Finanziamento Ordinario dell’istruzione universitaria (Legge Tremonti-Gelmini) con lo scopo di favorire la privatizzazione del sapere, costituire un sapere d’elite sotto controllo e svalorizzare l’università pubblica.
- Tagli di circa 2 miliardi al servizio sanitario, a vantaggio della sanità privata e finanziarizzata.
- Aumento dell’IVA al 22%, riduzione dell’IRAP e dell’IRES a vantaggio delle imprese, abolizione della tassa patrimoniale sulla casa. Assistiamo così all’adozione di una politica fiscale che aumenta le imposte regressive come l’IVA (che incidono più sui redditi bassi che alti) e riduce le imposte a carico delle imprese della proprietà immobiliare, con l’effetto di ampliare la diseguaglianza tra i redditi.
- Drastico aumento dell’età pensionabile e riduzione del sistema previdenziale pubblico a vantaggio di quello privato (Leggi Maroni e Fornero).
- Liberalizzazione dei licenziamenti individuali e istituzionalizzazione della precarietà come condizione tipica di lavoro (Jobs Act).
- Riforma costituzionale che incrementa i poteri dell’esecutivo e i controlli sul potere giudiziario, in presenza di una legge elettorale di tipo maggioritario che limita fortemente la scelta del voto.
- Interventi di gentrification e sfruttamento ulteriore del territorio (Salva Italia) in nome del saccheggio ambientale.
- Interventi di supporto e di risanamento del sistema creditizio in difficoltà (legge Salva banche): i debiti delle banche devono essere risanati, quello dei singoli cittadini no.
Il perseverare, anche con la legge di stabilità per il 2017, in politiche economiche di sostegno all’offerta, quindi a vantaggio del settore delle imprese, come leva per far crescere produttività e investimenti. Solo negli ultimi tre anni tra agevolazioni fiscali e contributivi sono state distribuite alle imprese più di 15 miliardi di euro. Tale regalia non ha prodotto né un euro in più di investimento né un aumento di produttività. E non può essere diversamente, dal momento che le imprese sono disponibili a investire in maggior produzione solo se si aspettano che vi sia un’adeguata domanda (pubblica o privata) in grado di assorbirla. Ma le politiche di austerity hanno appunto tagliato la domanda nazionale e quella estera non è sufficiente per compensare tali riduzioni. Inoltre la produttività oggi dipende sempre più dall’innovazione tecnologica e dallo sfruttamento delle economie di apprendimento e di rete, che abbisognano però di rapporti di lavoro stabili e soprattutto di continuità di reddito soprattutto se in presenza di flessibilità lavorativa. Condizioni che sono appunto negate dall’istituzionalizzazione della precarietà e dal dumping salariale introdotto dal Jobs Act.
L’effetto di tali provvedimenti è assai chiaro. Favorire ulteriormente una polarizzazione dei redditi a favore delle classe più agiate, ridurre i diritti del lavoro, aumentare la ricattabilità di reddito, privatizzare i servizi sociali e pubblichi, finanziare la grande industria e più in generale il ceto imprenditoriale: in una parola garantire la governante economica e finanziaria dei poteri forti.
Al pari delle politiche espansive di Draghi (Quantitative Easing), le politiche di austerity, non casualmente, hanno quindi premiato solo le oligarchie finanziarie: a partire dal 2012 (inizio dell’imposizione delle politiche d’austerity in Europa), l’indice Euro Stoxx 50 ha visto una crescita tendenziale da 2000 punti a oltre i 3800 punti nell’agosto 2015, prima dello scoppio della bolla immobiliare cinese e delle turbolenze dovute alla crisi di alcune banche, per poi assestarsi intorno ai 3.000 punti. Andamento ancor più positivo hanno registrato gli indici azionari di Wall Street.
Ecco allora che siamo in grado di spiegare perché oggi si parli di legge di stabilità. La stabilità non è relativa a quella dei conti pubblici, come si vorrebbe far intendere, ma piuttosto volta a garantire constanti e stabili entrate dalle attività finanziarie.
Siamo noi gli alieni o non lo è piuttosto la «legge di stabilità»?
Fonte: Alfabeta2.it
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