La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 13 dicembre 2016

Strike against the machine! Appunti sul presente

di Berlin Migrant Strikers
Ouverture
“Dove c’è rivoluzione… c’è confusione… dove c’è confusione un uomo che sa ciò che vuole ci ha tutto da guadagnare.” (James Coburn in “Giù la testa” – 1971)
“Tu… tu credi che io voglia derubarti? No… no, vedi… no! Non sono io il ladro. Non sono io che chiedo 85 cents per una Coca-Cola, sei tu il ladro! Io sto solo difendendo i miei diritti di consumatore, e riporto i prezzi al 1965…che te ne pare?!” (Michael Douglas in “Un giorno di ordinaria follia” – 1993)
I mesi appena trascorsi ci consegnano diversi fatti politici importanti che riguardano il conflitto capitale-lavoro, la produzione di soggettività e l’organizzazione delle lotte anticapitaliste.
Fatti che si danno su una scala talmente ampia da meritare uno sforzo di lettura globale; fatti inoltre che parlano in modo così profondo delle trasformazioni presenti da diventare indizi utili a individuare un lavoro politico possibile.
Tra i diversi vogliamo in particolare soffermarci sullo sciopero in nero delle donne polacche che ha incendiato la prateria di un rinnovato conflitto di genere (dall’Argentina all’Italia, finanche negli USA), sullo sciopero dei lavoratori Foodora in Italia e Deliveroo a Londra (a cui seguono le nuove norme in UK contro Uber) ma anche le lotte dei portuali in Svezia e la firma dell’accordo sui magazzini nel settore della logistica in Italia che definisce un campo di battaglia nuovo e più avanzato in una lotta decennale (da confrontare con il deludente accordo dei sindacati confederali dei metalmeccanici).
Diversi scioperi, manifestazioni, lotte che segnalano la centralità dei dispositivi di accumulazione capitalistica e di produzione e riproduzione, anche al di fuori del lavoro classicamente mutuato dal salario. Lotte che risignificano il concetto di sciopero in un contesto che ci pare di parecchio mutato rispetto alla fase di movimento precedente. Nella nostra analisi è la piazza parigina della Nuit Debout a porsi come ponte nel cambio di fase. Individuiamo, semplificando, per ciclo di movimento unico e precedente, quella lunga successione di eventi che dalla guerra permanente, dalla precarizzazione del lavoro, passando per la crisi economica e l’austerity europea, ci ha condotto in uno scenario completamente mutato.
Nulla sembra più essere come prima, le categorie precedenti risultano inefficaci, sono mutati gli orizzonti, le controparti, il complesso delle dinamiche politiche e dei paesaggi in cui agiamo. Le proteste francesi sono iniziate da Place de la Republique come l’ennesimo esempio possibile di “protesta democratica” all’interno del violento scenario dello stato d’eccezione. Un movimento sociale che si richiamava a quello di Occupy e del 15M spagnolo, e che di quei movimenti incarnava i limiti: l’impraticabilità di tenere una piazza attraverso meccanismi assembleari permanenti nel contesto di precarietà generalizzata. Se si è precari non si può scioperare, se si ha un lavoro non si può rischiare di perderlo, se si è studenti non si possono perdere mesi o anni perché valgono capitale.
Dalla crisi finanziaria del 2008 che ci lasciamo alle spalle una fase politica chiusa dai vani e differenti tentativi di richiedere una maggiore democraticizzazione dell’UE. Gli Indignadosspagnoli e l’esperienza di Podemos, le proteste transazionali di Blockupy, l’urlo di rabbia lanciato con l’OXI greco, il governo di Syriza, costretto alla fine ad inginocchiarsi si muovevano sulla dicotomia popolo/élite, con le istituzioni europee immaginate come spazio agibile e riformabile. Dopo anni questo ciclo ci riconsegna un’Europa che torna al passato, in una forma per di più autoritaria: la Brexit e l’emergere del Maysmo dal sapore putiniano, il possibile ritorno in auge dei popolari di Rajoy e di Nea Demokratia, i nazionalismi xenofobi in crescita ovunque, dalla Francia all’Italia, dall’Ungheria alla Germania.
Il tutto mentre dall’altra parte dell’oceano Donald Trump viene eletto 45esimo presidente degli Stati Uniti anche grazie ai voti di una parte di classe operaia (quella che, ahinoi, è in rapida ed inesorabile fascistizzazione, parte di un schema produttivo e politico in disfacimento). Vogliamo essere chiari, in questa sorta di “Back to the Future” ci paiono figlie dello stesso errore tutte le ipotesi sovraniste da sinistra. Risultano per noi disperati e velleitari tentativi di redistribuzione del poco rimasto tra le macerie; medesimo giudizio abbiamo per il ripiegamento in una dimensione neo municipale (sia essa più o meno “ribelle”); la produzione di ricchezza non è infatti oggi irregimentabile dentro uno spazio istituzionalmente definitosi in autonomia dal capitale e i flussi si muovono laddove è utile alla riproduzione del capitale stesso.
In parole povere ottimismo della ragione per alchimisti della rivoluzione, magari utile persino all’avversario. Proprio il movimento francese tuttavia si è spostato progressivamente su parole d’ordine e pratiche che evocavano lo sciopero infinito, molteplice e mobile. Dall’agorà della democrazia dal basso, la piazza di Parigi ha segnato a nostro avviso il passaggio in tensione verso uno sciopero sociale e permanente. Eccoci approdati infine sulla sponda di un nuovo presente. Nel cupo e opprimente ronzio di motori di guerra che si accendono, di propagande ciniche e di controllo sociale, come dicevamo, diversi fatti inaspettati irrompono nel dibattito che si sta dando. Diversi segnali, per ora solo indizi, scricchiolii nel sistema.
Se la mia vita non vale, producete senza di me
“Hai nello sguardo come un vento che trascina” (Goliarda Sapienza –L’arte della gioia)
Il primo elemento che ci sembra giusto valorizzare tra le lotte contemporanee è il vincente sciopero delle donne polacche contro la proposta di legge che voleva rendere illegale l’aborto; sciopero che ha, a nostro avviso, una duplice natura paradigmatica.
In primo luogo ci parla dell’emergere di una soggettività subalterna che taglia trasversalmente la stratificazione di classe e la ridefinisce: le donne. Ma ci parla anche di una forma di lotta che scardina lo schema delle battaglie di genere degli ultimi trent’anni, battaglie civili fatte di grandi piazze, lobbying politico più o meno interno alle istituzioni, rivendicazioni formali di parità. Le donne polacche hanno scelto di opporsi a una legge convocando uno sciopero, facendo leva quindi sulla propria forza produttiva per fare pressione sulla sfera politica, riportando sulla scena una pratica poco attuale e che per altro costituisce reato nell’ordinamento di diversi paesi, tra i quali l’Italia e la Germania: lo sciopero politico. Abbiamo quindi di fronte una componente che incarna il conflitto più antico e radicato nelle strutture sociali esistenti, che seppur spesso considerato marginale rispetto al conflitto di classe, costituisce in realtà il nocciolo primario dell’organizzazione del lavoro e della società nel sistema capitalistico.
Questa soggettività non solo è direttamente l’articolazione di un rapporto materiale, ma si esprime conflittualmente, affermando la propria autonomia politica, con l’imposizione di un danno materiale al capitale. Sciopero di genere e sciopero politico quindi, intrecciati dentro la vicenda polacca, segnano un punto di avanzamento e una traiettoria da percorrere. Inoltre lo sciopero delle donne polacche ha la capacità di svelare il corpo della donna come primo terreno di ricaduta delle esigenze produttive e riproduttive del capitale. Le donne si vedono vietare il diritto all’aborto e ricevono quindi l’imperativo a una funzione riproduttiva nel suo senso più incarnato, a questa violenza si risponde con un blocco produttivo, mostrando come a partire dal corpo delle donne per poi estendersi a tutte le figure subalterne, precarie, migranti, produzione e riproduzione normano i corpi attraverso strumenti sempre più violenti e repressivi.
Lo sciopero si risignifica diventando così sociale in senso pieno, lo fa innovando le pratiche del conflitto di genere e bypassando la specificità del rapporto produttivo, coinvolgendo la vita, i desideri e il corpo. La pratica femminista compie così il passo finale di consapevolezza del legame intrinseco e funzionale tra capitale a patriarcato, si lascia alle spalle l’illusione di contare democraticamente, sceglie invece di contare economicamente e di porre pressione al sistema in modo conseguente. Il Black Monday polacco, ha avuto immediatamente un’eco internazionale, con manifestazioni parallele di solidarietà in diverse città europee, e pochi giorni dopo un focolaio di conflitto di genere si è acceso dall’altra parte del mondo, in Argentina, con un’oceanica manifestazione di donne contro la violenza di genere, repressa dalle forze dell’ordine con violenza. Le donne argentine evocano e praticano immediatamente lo sciopero di genere come forma di lotta contro la violenza maschile, mostrando come le lotte reali creano un sistema di risonanze e richiami che precede e supera in potenza qualsiasi piattaforma organizzativa transnazionale.
Manifestazioni e scioperi di donne contro la violenza di genere si propagano subito in altri stati del Sud America, come il Messico e la Bolivia. “Se la mia vita non vale, producete senza di me” è uno degli slogan che spicca dalle proteste argentine, che rispetto allo sciopero in Polonia ci riconsegnano un elemento ulteriore: nel momento in cui la vita viene messa a lavoro nella sua totalità, è attraverso l’astensione dal lavoro che rivendico il diritto alla vita. Consapevoli che questa lettura possa apparire forzata, in quanto non esplicitamente pronunciata dalle lotte stesse, ci sembra però utile fare questo esercizio per parlare della centralità che in maniera “naturale” le donne esprimono nel panorama odierno. Lavoro e vita, produzione e riproduzione, sciopero di massa ma anche sciopero del non-lavoro produttivo.
Sabato 26 novembre in Italia, in un clima politico saturato dall’ossessivo e stantio dibattito sul referendum costituzionale, a partire da una chiamata costruita dal basso e senza nessun sostegno dei gruppi organizzato, si presentano in piazza 200 mila donne (e uomini) per manifestare contro la violenza di genere. L’ultima manifestazione paragonabile in termini di partecipazione risaliva al 2011, e seppure coperta da un imbarazzante e trasversale oscurantismo di televisioni e quotidiani, la manifestazione del 26 ha costituito un fatto politico reale nel paese. Da dove sono uscite queste migliaia di corpi in un quadro politico che appariva del tutto inaridito, a nessuno è dato saperlo, l’alchimia che produce i conflitti è un miscuglio di variabili la cui logica sfugge alla previsioni e si fa unicamente leggere tramite la forza dell’immaginario. La giornata del 26 non è di per sé indicativa di nulla, ma è reale e potente motore di soggettivazione femminista che investe non solo le donne.
Il giorno dopo, durante i tavoli tematici che seguivano, è stata rilanciata anche in Italia l’idea di organizzare uno sciopero transnazionale delle donne per l’8 marzo 2017 così come proposto dalle donne argentine. Così si delinea un paesaggio che ci sembra centrale nella riflessione e nella pratica politica a venire. In questo paesaggio le donne possono scegliere di rimanere nelle maglie delle istituzioni come ripetitori di potere e venire travolte come ci esemplifica la vicenda Hillary Clinton e quella più triste dell’assenza dalla manifestazione in Italia del gruppo “Se non ora quando”, oppure praticare la rottura femminista come risposta e come alternativa alle guerre di cui il capitale si serve per rimuovere gli ostacoli alla circolazione dei suoi flussi. Per completezza dobbiamo anche chiarire che la sconfitta e l’autoesclusione di un’idea del femminile così connessa al potere patriarcale è per noi motivo di conferma della bontà e dell’onestà radicale della strada intrapresa. Ripartire dal femminismo quindi, per muoversi ben oltre le battaglie per la parità di genere, e ripartire dallo sciopero, per costruire un’inclusiva ipotesi di conflitto.
_reproduce(future)_ ovvero il comando macchinico del capitalismo
“Io mi definisco politicamente un liberale; e sono a favore dell’efficienza. Voglio l’attività più economica al prezzo più basso. E’ per il bene comune. Non può essere solo rosso o blu”. (Travis Kalanick – fondatore e CEO di Uber)
“Spacciare deliberate menzogne e credervi con purità di cuore, dimenticare ogni avvenimento che è divenuto sconveniente …negare l’esistenza della realtà obiettiva e nello stesso tempo trar vantaggio dalla realtà che viene negata… tutto ciò è indispensabile, in modo assoluto”. (da La teoria e la pratica del collettivismo oligarchico di Emmanuel Goldstein; 1950 cit. 1984 di G. Orwell)
Il diffondersi simultaneo e dirompente di aziende come Foodora, Deliveroo, ma anche Uber, Helpling, ecc. ci impone di analizzare da che parte sta andando oggi un segmento, ma un segmento in rapidissima espansione, del capitalismo digitale, ovvero la cosiddetta gig economy (gig=lavoretto). La promessa di flessibilità, a cui segue la trappola della precarietà, meccanismo proprio della trasformazione del lavoro contemporaneo, ci parla e ci interroga violentemente sulla caduta del saggio di profitto e sulla tensione predatoria del capitale in questa fase storica. Il capitalismo ha sussunto le richieste di flessibilità e autonomia espresse dai movimenti degli anni ‘70 attraverso esperimenti di ingegneria sociale volti ad aumentare la produttività dei lavoratori attraverso la differenziazione molecolare dei rapporti di lavoro. Ciò ha prodotto un aumento di produttività nell’Occidente, ma anche la polverizzazione della struttura di classe precedente.
Assistiamo adesso ad un passaggio ulteriore verso la completa destrutturazione della dicotomia lavoratore dipendente/indipendente. Crowdworking, gig economy, mechanical turk: decidi quando e come e dove lavorare, e al resto – ovvero al modo migliore di sfruttarti – ci pensiamo noi. Tale ridefinizione del lavoro permette al capitale di adattarsi più velocemente ai flussi e riflussi dei mercati finanziari globalizzati: se ogni lavoratrice è imprenditore di se stesso, avrà sempre più fatica a costruire alleanze, a diventare classe per sé.
E’ la moltiplicazione di massa e 4.0 della retorica del self-made-man della capitalismo anni 80. Gli scioperi prima dei fattorini Deliveroo a Londra, poi di quelli di Foodora a Torino, hanno aperto però una crepa nella narrazione sfavillante della digital economy, mostrando come anche qui alla base del profitto rimane lo sfruttamento della forza lavoro. Le loro lotte come anche quelle contro Uber e le battaglie contro la gentrification connessa ad Airbnb hanno spezzato la retorica della Sharing Economy come declinazione di un possibile “capitalismo dal volto umano” e stanno iniziando a produrre legislazioni nazionali che riconoscono i lavoratori come tali. Purtroppo queste legislazioni non sono altro che primi esperimenti di tutela ancora inefficaci ed anzi in grado di moltiplicare in un quadro multinazionale forme di dumping aziendale (per es. tra Germania, Italia ed Inghilterra).
Contemporaneamente, accanto a queste forme di digital economy predatoria o a forme di “piattaforme nazionali” differenziate da mercato a mercato, stanno nascendo forme più o meno avanzate di platform cooperativism di mutualismo dal basso pionieristiche, avanzate e molto interessanti. Sono le forme che, accanto allo sciopero e alla tensione alla condivisione dei saperi, andranno sempre più diffuse e promosse per resistere alla guerra che il capitalismo digitale muove agli essere umani. La specificità della digital economy risiede nella delega della messa a profitto ad un algoritmo, ad una macchina intelligente. All’algoritmo viene delegata la funzione di gestire la forza lavoro dell’azienda in modo tale da massimizzare i profitti. Facile capire perché gli algoritmi della gig economy siano sigillati e sorvegliati: essi costituiscono la leva del profitto. Nessuno (tanto meno i lavoratori di Foodora, Deliveroo, o Uber) ha accesso ad essi, questo è un punto dirimente nelle lotte contro il capitalismo di piattaforma. Nel momento però in cui il rapporto capitale/lavoro, mascherato da slogan luccicanti, viene messo a nudo, i lavoratori si ricompongono come working class, e da tale reagiscono: scioperano.
Qui torna alla luce la connessione con lo sciopero delle donne polacche, lo sciopero come strumento di smascheramento e blocco della produzione. Lo smascheramento avviene sul piano comunicativo. I lavoratori rompono infatti innanzitutto la narrazione su cui Foodoragarantisce la propria sopravvivenza: la retorica comunicativa, il branding. Scioperano incrociando le braccia nel giorno e nell’ora di punta (mettendo a valore il “sapere operaio”), e organizzano lo sciopero via whatsapp (riappropriandosi degli strumenti che l’azienda utilizza per comunicare). Ancora una volta la loro emersione, il loro racconto, produce un danno economico. Se i lavoratori della gig economy avessero detenuto in open source l’algoritmo distributivo, avrebbero potuto piegare l’algoritmo alla loro vertenza. Un nuovo sindacalismo che voglia fare delle lotte nel digitale il proprio punto di scardinamento della logica del profitto, si dovrà quindi dotare di un nuovo know how basato sulla comunicazione, sulla programmazione matematica, sulla conoscenza psicologica e su una visione fredda della macchina da guerra del capitalismo.
Sciopero logistico, migrante, digitale
“La società borghese, basata sullo scambio di valore, genera rapporti di produzione e circolazione che rappresentano altrettante mine per farla esplodere. Esse sono una massa di forme che si oppongono alla unità sociale, il cui carattere antagonistico non potrà mai essere eliminato attraverso una pacifica metamorfosi. D’altra parte, se noi non potessimo già scorgere nascoste in questa società – così com’è – le condizioni materiali di produzione e di relazioni fra gli uomini, corrispondenti ad una società senza classi, ogni sforzo per farla saltare sarebbe donchisciottesco” Karl Marx, Grundrisse.
L’analisi fin qui fatta va inquadrata dentro le forme in cui il capitalismo si sta dando in questo scenario mutevole di guerra verticale ed orizzontale, ad alta o bassa intensità. Costantemente il capitale appare in tutto il suo valore nel movimento da un punto ad un altro di estrazione, produzione e riproduzione. Questo movimento avviene dal basso verso l’alto (come nel caso della finanziarizzazione del welfare) o si muove da un luogo all’altro (attraverso il dispiegamento di una fitta rete di infrastrutturazione logistica) o nel web (flussi di dati raccolti da diversi dispositivi verso un unico device di analisi e quindi messa a valore di questo sapere sul mercato).
Il flusso coinvolge beni e servizi (come nel caso di Foodora) o esseri umani (come nel caso dei migranti), si dà come l’espressione fenomenologica del capitale, cioè come circolazione da un punto ad un altro di un’intenstà. Lo sciopero che verrà dovrà puntare sicuramente all’emersione politica delle soggettività sfruttate, ma dovrà innanzitutto bloccare, interrompere questi flussi di capitale per essere realmente efficace. Lo potrà fare se utilizzerà la logistica per neutralizzare la potenza del capitale, se sarà migrante in quanto condizione trasversale e ricompositiva e se sarà virtuale nell’invertire i flussi di ricchezza e rendere lo sciopero un processo anch’esso automatizzato.
Non potrà quindi non interessare innanzitutto le vie della logistica. Come le lotte della logistica nel nord Italia, gli scioperi dei ferrovieri della DB e della Lufthansa in Germania, i blocchi dei rifornimenti delle raffinerie in Francia (ma anche il blocco del porto di Oackland e Gotemborg) se non può circolare il capitale non esiste cioè perde il suo supposto valore intrinseco. I soggetti sociali, i lavoratori, le donne e gli uomini che hanno impedito al capitale la circolazione hanno acquisito nello sciopero un potere contrattuale enorme. E spesso infatti hanno messo in difficoltà la controparte. Per gli stessi motivi e seguendo la linea di sviluppo della terribile macchina da guerra capitalistica, lo sciopero non potrà non interessare i corpi in movimento. Se le relazioni, le ambizioni, i saperi sono continuamente messi a valore e se la tensione capitalistica è quella all’individualizzazione estrema, ci pare naturale estendere il ragionamento ai corpi che si muovono nello spazio fisico.
Due miliardi di persone sul pianeta terra sono migranti e vengono costantemente sfruttate come flusso di forza lavoro. Sfruttati in ogni nicchia possibile del mercato del lavoro e del non lavoro (dalle polverose campagne del sud Europa alle luccicanti start up metropolitane), sfruttati nel loro movimento (o nel loro non movimento) da governi come quello turco o da sistemi di welfare e formazione come in Germania. Sfruttati per reggere i sistemi di welfare, in rapida trasformazione, ma anche per abbassare il costo del lavoro massimizzando i profitti. Un flusso enorme di corpi in movimento che costantemente deterritorializza e riterritorializza capitale, ricchezza e possibilità di riproduzione del valore.
Ma proprio perché così diversificata nelle nicchie economiche, ricattata dalle condizioni politiche, divisa da politiche migratorie e sociali diverse, la soggettività migrante può, ribaltando un piano di potenziale debolezza, ricomporre le diversità in cui è inserita e farsi grimaldello per uno sciopero sociale transnazionale. Può essere la soggettività la cui emersione ricompone le diversità anche tra chi non è migrante ma con i migranti condivide l’attacco che il capitale muove in ogni singolo spazio della società.
Con uno slogan potremmo dire che siamo tutti migranti nel mercato del lavoro, e siamo tutti donne in una società maschilista. Il presente capitalistico ha già dimostrato come sottrarre al controllo dei lavoratori la possibilità di riproduzione di larghe porzioni di capitale e ricchezza. Algoritmi finanziari riescono a spostare da un titolo ad un altro in un nanosecondo miliardi di euro in una folle corsa al denaro che produce denaro. Altri algoritmi profilano e mettono a valore informazioni, attitudini che vengono analizzate da altri algoritmi che a loro volta scelgono qual’ è la funzione più efficace per massimizzare i profitti e aprire nuovi mercati. Proprio per questo l’ultimo terreno da affrontare guardando ai flussi di capitale e allo sciopero è il terreno del virtuale. Lo sciopero sociale dovrà essere capace di agire il terreno dell’immateriale provando a sottrarre valore e potenza agli algoritmi del capitale. Dovrà farlo rendendoli inservibili per il capitale, dovrà invertire i criteri di scelta, dovrà dare accesso e proprietà universale al sapere algoritmico. Dovrà puntare alla valorizzazione dell’interesse dei molti rispetto a quello dei pochi nella scelta algoritmica, alla sovrapproduzione di informazioni che rendano impossibile la profilazione algoritmica. E lo dovrà fare attraverso la costruzione in open source di algoritmi condivisi e costantemente modificabili. Come la scienza dell’open source dimostra nessun programma proprietario può reggere il confronto con un sistema in continua modificazione e riprogrammazione. Semplificando, lo sciopero nel virtuale dovrà invertire il flusso dai tanti ai pochi.
Linee di fuga
“- Quando è cominciata la vostra fuga? – Ve l’ho detto, da quando preti e profeti pretesero d’impadronirsi della mia vita. Sono stato con Müntzer e i contadini contro i principi. Anabattista nella follia di Münster. Giustiziere divino con Jan Batenburg. Compagno di Eloi Pruystinck tra gli spiriti liberi di Anversa. Una fede diversa ogni volta, sempre gli stessi nemici, un’unica sconfitta.” Luther Blissett.
Eccola qui la globalizzazione in tutto il suo meraviglioso disastro. Una promessa di superamento dei confini e delle barrire che ha prodotto solo le condizioni per nuove riterritorializzazioni in chiave nazionalista, protezionistica, austera e così via. Quello che il capitalismo ha sempre fatto (per esempio con il colonialismo) è allargare continuamente il campo di estrazione di ricchezza in chiave geografica ed in chiave di prodotto (dati, logistica, finanza, relazioni). Il superamento del diritto internazionale, degli accordi commerciali, ci conduce dopo una fase “espansiva” in una nuova fase di segregazione e differenziazione.
Una fase di guerra appunto (di classe, di civiltà, di genere, di razza), dove la guerra è lo strumento più efficace per dividere, per creare flussi in grado di riprodurre capitale in modo sempre più rapido, predatorio e violento. Trump, Putin, Le Pen e tutti i populismi e i nazionalismi sono solo opzioni politiche utili a questo processo di acquisizione di valore da parte dei nuovi Hub logistici dei flussi di ricchezza: gli Stati nazione. L’Unione Europea diviene nient’altro che un Hub che gestisce un flusso di capitale, le nazioni europee non sono altro che ulteriori Hub che gestiscono questo flusso in arrivo e lo distribuiscono a loro volta e così via fino alle comunità più microscopiche. Allo stesso tempo il flusso (anche attraverso il dispositivo dell’indebitamento e della fiscalità) procede all’inverso dal microscopico al globale e alla finanza. L’UE agisce questa violenta espropriazione di ricchezza attraverso una forma di colonialismo interno a matrice ordoliberale (l’esempio della Grecia e dell’Italia su tutti).
Dogane, frontiere e barriere come anche le retoriche razziste sono ulteriori strumenti utili alla differenziazione dei flussi e all’acquisizione potere da parte degli Hub, snodi logistici del capitale. Lo Stato, come sospettavamo, non scompare dall’orizzonte del presente, ma ridefinisce profondamente sé stesso e le proprie funzioni. In prospettiva i luoghi di accumulazione, gli stati, le aree commerciali, le unioni sovranazionali, continueranno nello sforzo di accumulazione permanente (veri e propri bottini di guerra interna) a subire involuzioni autoritarie. Solo le alleanze tra soggetti diversi che si oppongono alla guerra, solo i processi ricompositivi e gli scioperi della produzione e riproduzione di ricchezza, il blocco di flussi e la condivisione di saperi possono produrre rottura e inversione di tendenza rispetto a questo balletto mortifero tra istituzioni e capitale. Senza questo processo insieme di rottura e di cooperazione il collasso del sistema finanziario, il collasso del “sistema pianeta” ed infine la povertà saranno quello che il capitalismo autoritario, monopolizzato e violento lascerà sul campo. Ogni sciopero, e ogni sperimentazione economica di mutualismo e cooperazione è per noi terreno di investimento politico da praticare con maggiore energia rispetto ai luoghi del conflitto “classici” del ciclo politico precedente.
Proprio per questo per noi lo sciopero politico contro Trump del 20 Gennaio 2017 negli Stati Uniti, la marcia delle donne contro il sessismo il 21 a Washington ed ancora lo sciopero dei migranti in Inghilterra che si sta costruendo per Febbraio e lo sciopero di genere transnazionale l’8 marzo sono date da attraversare, di cui discutere, da indagare a fondo. Lo potrebbe essere altrettanto se percorso dentro questa tensione, il G20 di Amburgo che si terrà tra il 6 e l’8 luglio 2017. In quella data i gestori degli Hub/stati nazione ridefiniranno, in uno snodo logistico simbolicamente importante per l’Europa, le regole di valorizzazione dei flussi di merci, di dati, di esseri umani. Un’occasione per noi per mettere in campo pratiche di blocco e ricomposizione, una data utile per praticare forme di sciopero che parlano degli sfruttati del mondo intero.


Fonte: Effimera.org 

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