La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 6 ottobre 2015

Breve storia di un lemming chiamato Unione Europea

di Giuseppe Cucchi
Non ho mai posseduto un lemming, uno di quegli animaletti nordici schiavi di un aperiodico raptus suicida che di tanto in tanto, come per un comando o un segnale, si intruppano a decine di migliaia e corrono a gettarsi nel gelido mare della Scandinavia, ove trovano una fine miseranda. Se ne avessi uno comunque in questo momento storico non avrei alcuna esitazione sul nome da dargli.
Lo chiamerei Europa, come l’Unione che dopo aver dedicato più di 70 anni a mettere in piedi un castello di sogni – ove il benessere era divenuto regola e la pace un diritto acquisito – sta ora rapidamente dissolvendosi, travolta da epocali terremoti che essa stessa ha contribuito a innescare senza però sapere come controllarli.
A ben guardare, una ripetizione di quanto già avvenne con la Torre di Babele. Dopo essere andati molto vicini a parlare una sola lingua con un sola voce, stiamo rapidamente ricadendo nella cacofonia dei linguaggi molteplici. E nel caos da essa indotto. Quos Deus vult perdere, dementat prius?
Forse il primo errore, quello che ha innescato il successivo rosario delle pene e dei guai, lo abbiamo compiuto quando, allo scopo di aprire ai paesi europei usciti dall’eternità comunista una prospettiva di sicurezza e di benessere, abbiamo allargato a tutti loro, più o meno in parallelo, tanto l’Unione Europea quanto il cosiddetto “pilastro europeo” dell’Alleanza Atlantica.
Si trattava probabilmente di un atto che non si poteva dilazionare. In fondo il carro della storia passa una volta sola ed è lui a decidere i suoi tempi. Per l’allargamento, però, l’Europa ha rinunciato a portare avanti un indispensabile processo di approfondimento e aggiornamento. E non ha più avuto la forza di riprenderlo in maniera adeguata in tempi successivi.
Nella fretta e nell’urgenza con cui sono state fatte le cose, non abbiamo ben valutato come i nuovi Stati membri dell’Unione fossero tutti, sia pure in misura differente l’uno dall’altro, condizionati da due fattori negativi frutto della lunga e dura dominazione sovietica.
I Peco (i paesi europei ex comunisti, come vennero allora definiti) portavano scolpita nel loro dna una costante paura di un ritorno offensivo della Russia. Timore in seguito rivelatosi negativamente condizionante in più di un’occasione.
Inoltre i decenni di stenti avevano profondamente radicato in essi quell’egoismo della sopravvivenza a ogni costo, quell'”io prima di tutto e tutti” che sta ora pesantemente emergendo in occasione della crisi dei migranti.
I frutti di questa pericolosa e instabile nuova situazione si videro subito e furono amari. Allorché gli Stati Uniti avviarono la loro ritorsione verso il mondo islamico sunnita per gli attentati dell’11 settembre 2001, l’Europa si spaccò immediatamente in due.
Da una parte, con la sola eccezione del Regno Unito, il nocciolo duro e originale dell’Unione, “la vecchia Europa” come la denominarono con disprezzo i neoconservatori allora imperanti Oltreoceano. Dall’altra la “nuova Europa”, per cui la fedeltà a Washington – indispensabile per poter sperare di bilanciare e contenere con successo l’orso russo – faceva premio su ogni altra considerazione. E forse anche sul comune buon senso!
La crisi economica che arrivò poco dopo aggiunse divisione a divisione. Questa volta la cortina fu stesa fra i paesi del sud, accusati di un comportamento da cicale dissipatrici, e quelli del centro nord, virtuose formiche pazientemente dedite al lavoro e all’accumulo. Che poi la creazione del surplus, specie di quello tedesco, avvenisse proprio a spese di coloro che erano accusati di dissipare, sembrava non avere alcuna importanza.
L’acme della crisi si è raggiunto con il caso greco, un bubbone che l’inerzia degli Stati membri dell’Unione ha lasciato lievitare sino a quando il rischio di contagio è diventato palese. Si è finiti così con l’impegnare più di 300 miliardi di euro per risolvere un caso che, se trattato al suo insorgere, avrebbe potuto essere chiuso efficacemente con un decimo di quella somma. Oltretutto, i provvedimenti adottati erano mirati più a salvaguardare gli interessi della finanza internazionale che a promuovere una reale ripresa economica e soprattutto sociale del paese.
Fu chiaro a quel punto che l’Unione soffriva di un chiaro deficit di leadership.
L’asse franco-tedesco, che tradizionalmente aveva svolto funzione trainante in ambito comunitario, appariva ormai tanto squilibrato da non riuscire più a ricoprire tale ruolo. Da un lato la Germania, cresciuta al punto di essere divenuta il naturale interlocutore per chiunque desiderasse – secondo la vecchia locuzione di Kissinger – “telefonare all’Europa”, esitava, dopo averne preso i vantaggi, ad assumere anche gli obblighi di norma connessi a una condizione di leadership. Dall’altro una Francia ancora piena di velleitarie illusioni faceva ciò che poteva, vale a dire limitarsi ad affermare una presenza, con il pallido Hollande sempre più condannato ai vertici bilaterali a far figura di due di briscola di fianco alla Cancelliera.
Completavano il quadro il Regno Unito, che la prospettiva di un referendum a scadenza imprecisata aveva allontanato dall’Europa; la Spagna, concentrata sul suo problema catalano e in procinto di divenire sempre più satellite della Germania (almeno dal punto di vista economico); e l’Italia, impegnata nella faticosa e difficilissima riconquista di credibilità in ambito comunitario.
Questa condizione ha permesso, più che altro per inerzia, il perpetuarsi di uno stato di fatto in cui tutte le risorse e tutta l’attenzione erano ormai da vent’anni destinate all’Est, mentre ciò che avveniva a Sud era a volte oggetto soltanto di un’attenzione distratta. Altre volte invece si tendeva a conferire eccessiva importanza a fatti che rientravano nel quadro ideale che avremmo voluto vedere configurarsi – come quello delineato dalle volatili e illusorie primavere arabe – ignorando o quasi fenomeni macroscopici come la feroce guerra civile siriana e la progressiva anarchia libica.
Ad aggravare la situazione sono sopravvenuti poi i fatti d’Ucraina. Occasione in cui Unione Europea e Nato si sono mossi in modo tanto maldestro e così in controtempo da riuscire rapidamente a spaccare in due un paese europeo, a fargli definitivamente perdere una grande provincia e a immergerlo in un guerra civile destinata purtroppo a durare probabilmente a lungo.
Come corollario ci siamo poi alienati la Russia, un grande paese che era da molti punti di vistacomplementare all’Europa, da cui dipendiamo per buona parte delle nostre forniture di gas e che avrebbe potuto giocare, affiancato a noi, un ruolo forse decisivo nella soluzione dei problemi mediorientali.
In tempi recentissimi, infine, è esploso in tutta la sua virulenza quel problema dei “migranti” che la generale instabilità di tutta l’area circum-mediterranea ha innescato. E che noi italiani, paese di estrema frontiera del continente e quindi il primo a essere toccato dalla crisi, denunciavamo da tempo a chi ci prestava invece soltanto un orecchio distratto.
Neanche in questo caso i paesi dell’Ue hanno reagito in maniera unitaria ed efficace. Siamo invece stati travolti da un turbine di egoismi individuali conditi di muri e di fili spinati, cui per un attimo soltanto il momentaneo guizzo di leadership della Cancelliera tedesca è sembrato poter conferire un minimo di ordine. Poi il caos è ripreso.
Questo bilancio degli ultimi 15 anni non appare certo confortante. Se ne percepisce meglio il peso qualora si consideri come tutte le crisi che l’Unione ha affrontato in questo periodo siano ancora sostanzialmente aperte.
Che fare? Difficilissimo, se non impossibile, fornire ricette in queste condizioni. Meglio probabilmente limitarsi a rilevare come non si possa ulteriormente continuare per la strada delle divisioni e dei piccoli egoismi che abbiamo sinora seguito. Una strada che rischia di far crollare la costruzione meravigliosa, anche se incompiuta, che i nostri padri ci avevano trasmesso.
Se poi vogliamo, come i lemming, continuare a correre intruppati verso il mare e verso l’inevitabile fine, la cosa non risulterà affatto difficile. Basterà continuare a premettere il particolare al generale, l’interesse individuale a quello collettivo, la realizzazione immediata al progetto a lunga scadenza, l’orizzonte limitato a quello strategico. E via di questo passo con ottusa, suicida ostinazione.

Fonte: Lime online 

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