La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 6 ottobre 2015

Razzismo e schiavitù. Come e perché il capitalismo procede svilendo l’umanità

di Dante Lepore
In un precedente intervento avevamo concluso, in merito alla «libertà», che il suo vessillo venne impugnato storicamente come bandiera dei ceti radicali borghesi, allora in ascesa e rivoluzionari, contro il principio d’autorità, contro l’assolutismo feudale aristocratico, per evolvere poi nella forma di un radicalismo espressione dei ceti medi e di borghesia grande o piccola di volta in volta proprietaria benestante o in crisi come nell’attuale fase di regressione sociale, oscillante tra una visione della libertà come «trasgressione», violazione della legge, rifiuto delle «costrizioni», e una forma tipica di segno opposto, di garantismo e legalitarismo della pletora dei parassitari delle scartoffie, dei funzionari e burocrati pubblici e privati, politici e sindacali, che ormai infestano il corpo sociale in putrefazione nella fase del capitale stramaturo e marcio, il capitale fittizio, ceti che prosperano sulle miserie, le tragedie e le guerre in cui si dibatte il capitalismo da sempre. 
Entrambi sono ossessionati dalla «gerarchia», dall’«autorità», dal «dominio» e dal «potere», e si è visto che in definitiva i loro progetti sono conservativi del sistema capitalista della proprietà, della legge del valore.
Quanto al progetto di libertà come propugnato dal marxismo, che essi avversano senza sapere neppure di cosa parlano, esso prevede il comunismo molto semplicemente come: l’abolizione del valore, che rende inconcepibile la proprietà privata dei mezzi di lavoro, l’abolizione della produzione di merci, del lavoro salariato e del proletariato in quanto forma mercificata della forza-lavoro nel capitalismo.
Resta qui da approfondire il nesso tra il capitalismo e la pratica del lavoro schiavista e il riflesso di questa condizione nell’edificazione ideologica del razzismo contemporaneo. Conoscere i fenomeni sociali nella loro genesi aiuta a combatterli, ma conferma pure un assunto della concezione materialista, che se non si va alle cause di tali fenomeni, essi potranno solo incancrenire, assumere altra forma e continuare nell’opera di degrado della specie e della natura, iniziata con l’introduzione della legge del valore e la riduzione dell’umanità al suo prodotto.
Non si insisterà mai abbastanza sul fatto che il concetto di razza e il fondamento del pregiudizio che discrimina qualità morali collegate al sangue e ai caratteri somatici erano idee sconosciute nell’Antichità e nel Medioevo, generalmente inesistenti prima dei secoli XVII e XVIII. Nell’antichità greco-romana, «barbari» (che del resto allude ad un modo non greco di parlare il greco!) e stranieri costituivano quel genere di alterità che abitava fuori della polis o dell’urbe. Nemmeno nel sistema delle caste indiane si può individuare alcuna idea di razza in senso moderno. Oliver Cox individua i caratteri di questo anacronismo:
«Gli scrittori, che usano le idee moderne di relazioni razziali con lo scopo di spiegare l’origine delle caste, riconducono acriticamente al pensiero moderno un’età che non lo conosceva. Il pensiero degli originari indo-ariani non poteva concepire nei termini della modernità il pregiudizio razziale così come non poteva inventare l’aeroplano. I fattori sociali necessari per pensare in termini moderni di relazioni razziali non erano a loro accessibili. Ci vollero circa duemila e più anni a sviluppare queste idee nella società occidentale e qualunque nozione di queste è oggi presente in India è stata acquisita da una recente diffusione». (2)
Apparso nel corso dell’ultimo quarto del XVII secolo, in condizioni sociali molto particolari, il concetto di razza era stato preceduto da idee molto differenti sugli Africani e gli Indiani del Nuovo Mondo, idee che fu necessario sradicare, prima di poter inventare il concetto di «razza» che traducesse un’altra pratica sociale in nuove relazioni sociali e naturalmente in un nuovo linguaggio. Era necessario uno svilimento dell’umanità in quanto comunità materiale (Gemeinwesen), in concomitanza con la soggiogazione dei popoli non europei, in cui la nuova concezione di razza poté affermarsi, negli ultimi decenni del XVII secolo. Un’idea di razza che, inoltre, paradossalmente non poteva manifestarsi fino a quando il razionalismo e la critica scientifica, intorno alla metà del XVII secolo, non sconfissero i percorsi mitici e religiosi dell’uomo per pervenire a una considerazione all’apparenza più obbiettiva, «scientifica», appunto biologica, dell’esistenza, in quanto «rapporti che derivano dalla natura delle cose» (Montesquieu). Non è per caso che il concetto di razza sia nato nello stesso tempo dei Lumi e che l’ontologia dei Lumi, radicata nella scienza nuova del XVII secolo, modellasse un’immagine degli esseri umani nella natura vista come fissa, costante, immutabile, ripetitiva, e che, senza volerlo, fornì armi ad un’ideologia nuova, razzista, precedentemente impensabile. Una dimostrazione, infine, se ce ne fosse bisogno, dei limiti posti dalla scienza al suo utilizzo ideologico. Gli stessi esordi della rivoluzione inglese affondavano ancora radici nei programmi sociali dei movimenti ereticali e nelle utopie millenariste. Le utopie messianiche inglobavano Indiani e Africani e il loro etnocentrismo era universalista nel senso medievale monoteista (cristiani, ebrei, musulmani contro infedeli), e non una dottrina razziale (3).
Il paradigma epistemologico attraverso il quale l’Occidente vedeva «l’Altro» prima del 1670 (inizio del secolarismo illuminista spesso anticlericale e ateo) passava essenzialmente per la religione: la divisione del mondo fra cristiani e non cristiani era di ordine religioso e non razziale, ivi compreso l’atteggiamento verso gli ebrei. Il nuovo incipiente modo di produzione, il capitalismo, si accingeva a trasformare l’essere umano in lavoratore salariato, identificato esattamente con l’attività vitale (dell’uomo-lui o della donna-lei in quanto individui), come è nell’animale, lavoratori salariati costretti da una società che ha perso la funzione comunitaria delle formazioni naturali della specie umana, riducendosi ad una sommatoria di individui estranei l’uno all’altro, a identificare se stessi con la propria attività vitale, «naturale» nel senso di immutabile, così come l’orientamento sessuale.
Adam Smith, lodava la società efficiente ottenuta relegando, per tutta la sua vita, il lavoratore individuale all’interminabile ripetizione di un gesto. Goldner insiste sulla vicenda di questa concezione dell’infinito fin dai Greci che non riuscivano neppure a concepire qualcosa di non compiuto e perfetto, e che sarà espressa dalla concezione di Newton e che Hegel chiamerà «cattivo infinito». Sarà infine l’economista sir William Petty (4) a proporre una gerarchia mondiale delle razze, in un libro che quasi nessuno si sogna di menzionare, nemmeno Wikipedia, The Scale of Creatures (1676), costruendo l’anello di congiunzione tra colore della pelle e cultura, teorizzando che aveva avuto inizio in Spagna più di due secoli prima:
Dell’uomo stesso sembra che esistano parecchie specie, per tacere dei Giganti e dei Pigmei o di quella sorta di omuncoli che hanno solo poco linguaggio...perché di queste specie di uomini io non oso dir nulla, ma è possibile che ne esistano razze e generazioni ... ci sono altre [(differenze) nota dell’autore] più considerevoli come fra i negri di Guinea e gli Europei di mezzo; e per i Neri, fra quelli di Guinea e quelli che vivono presso il Capo di Buona Speranza, questi ultimi essendo i più prossimi alle bestie di tutte le specie di uomini dei quali i nostri viaggiatori hanno una buona esperienza. Io dico che gli Europei non differiscono dagli Africani qui sopra menzionati soltanto per il colore..., ma anche...nelle maniere naturali e le qualità interne del loro spirito.
La transizione dalla schiavitù alla servitù gravitò, con molte oscillazioni, attorno alla penisola iberica, ma era sempre dipesa dal rapporto di forza fra i padroni cristiani e i servi, indipendentemente da ogni criterio di razza. La «razza», come associazione di attributi culturali con fattori biologici, compariva all’inizio del moderno antisemitismo, nella storia spagnola precedente al XV secolo nelle leggi sulla «purezza del sangue» (limpieza de sangre), e fu trasferita alle popolazioni indiane nell’impero del Nuovo Mondo spagnolo, e allora generalizzata attraverso l’Atlantico del Nord per legittimare la tratta degli schiavi africani, e questa si identificò grandemente alla fine del XVII secolo proprio quando stava nascendo l’illuminismo. Abbiamo già detto della schiavitù alle origini della rivoluzione americana e di presidenti possessori di schiavi, tra cui anche il virtuoso e illuminista e costituzionalista liberale Thomas Jefferson. Lo stesso Locke, da tutti i liberali considerato «filosofo consacrato alla libertà», sedeva nel consiglio d’amministrazione della RoyalAfrican Company che deteneva il monopolio governativo della tratta degli schiavi e che annoverava tra gli azionisti Isaac Newton, Jonathan Swift e Daniel Defoe. L’autore della Epistola de tolerantia e dei Due trattati sul governo (due pilastri del liberalismo) nonché segretario di Anthony Ashley, Lord Cancelliere nel 1672, era uno speculatore che guadagnava sulla tratta degli schiavi. L’identità degli attributi culturali con le fisionomie esteriori ritenute fisse e immutabili, così come col colore della pelle e la nascita e il sesso, completa questo processo, fino alla definizione di esseri umani come animali, che è la fondazione di qualsiasi identificazione di attributi culturali con il colore della pelle o con la fisionomia esteriore. Naturalmente qui non si vuole screditare l’illuminismo come razzista di per sé, anzi, come nota acutamente Goldner,
«L’illuminismo, oggi, non può essere difeso semplicemente soltanto nei termini dell’illuminismo. I limiti della sua razionalità possono essere compresi adeguatamente e visti nella loro reale proporzione solo da coloro che concepiscono una più alta razionalità. L’aspetto migliore dell’illuminismo proviene da se stesso, ma è disarmato contro l’aspetto peggiore dell’illuminismo. Un’ideologia è meglio compresa quando è vista in opposizione all’esperienza da cui è generata, e in opposizione al futuro in cui si concluderà». (5)
In conclusione, l’adozione del paragone tra esseri umani ad animali è inseparabile dalla nascita della borghesia, della società capitalistica, della mercificazione generale comprendente le prerogative fisiche umane, senza di cui le popolazioni del mondo erano a lungo vissute, sia pure con ben altri pregiudizi. Del capitalismo, della borghesia e del relativo sistema sociale, il razzismo e la schiavitù salariata sono il prodotto più genuino.
Nella precedente newsletter 48(6 ), per sfatare un luogo comune che tuttora identifica il concetto di schiavo (che peraltro risale al commerci d’epoca romana degli “slavi” balcanici) con quello di «negro», sostenemmo anche che a supportare l’economia di schiavitù nel nuovo mondo solo in un secondo momento subentrarono lavoratori di razze diverse da quella bianca, nativi indiani e neri africani, e il Paese dedito a questo traffico era l’Inghilterra. È noto anche che l’Australia fu inizialmente un paese di ex galeotti, la cui gran parte fu inviata alla schiavitù per «delitti» come rubare sette iarde di stoffa, tagliare gli alberi di una proprietà aristocratica o appropriarsi di una pecora per dar da mangiare ad una famiglia che moriva di fame. L’instaurazione del regime moderno della schiavitù nelle piantagioni delle Americhe svolse per settanta anni (1620-1690) il compito di imbrigliare forza lavoro, dopo che si constatò che i bianchi deportati nelle colonie non avrebbero potuto da soli garantire la crescente domanda di produzione. Come afferma Michael A. Hoffman: «Sfido qualsiasi ricercatore: studiate l’America del XVII secolo, vagliate i documenti, il gergo professionale e gli statuti in entrambe le coste dell’Atlantico e scoprirete che la schiavitù bianca era un fatto ben più diffuso di quella negra. È a partire dal XVIII secolo che si comincia a parlare di servitù sulla base di contratti di apprendistato. Ma anche in quel periodo avvenivano rapimenti di anglosassoni, oltre alla schiavitù per i condannati» (7).
Più di un secolo (1792-1907) fu necessario per l’abolizione del sistema della deportazione e della schiavitù della forza lavoro negli stati coloniali. In questo lungo periodo si va dalla guerra civile negli Stati Uniti all’istituzione della repubblica brasiliana, alla creazione e alla distruzione degli stati dei boeri in Sud Africa, alla rivolta dei giacobini neri di Haiti. Fu dunque il capitalismo a creare sia la schiavitù che il razzismo. Herbert S. Klein (8) dimostra che fu la penuria di mano d’opera interna a incrementare l’opzione in favore della tratta; e che il meccanismo incominciò a declinare nella seconda metà dell’Ottocento, non tanto in conseguenza della guerra civile americana, quanto piuttosto per l’irrompere sulla scena della massiccia emigrazione dall’Europa, spesso con caratteristiche militanti. E quando oggi la schiavitù bianca viene riconosciuta come realmente esistita in America, è definita quasi sempre come «servitù a contratto», o parte del traffico dei condannati, il cui centro, dopo la rivoluzione del 1776, fu in Australia e non in America. I «forzati» trasportati in America in base alla legge del 1723 (Waltham Act) probabilmente furono circa 100.000. Prima che i commercianti di schiavi inglesi andassero in Africa occidentale per comperare negri dai negrieri locali, vendevano l’eccedenza in schiavitù dei loro operai (conosciuti come «poveri in esubero») catturati nelle strade e città dell’Inghilterra. Decine di migliaia di questi schiavi bianchi erano bambini rapiti e la parola «kidnapped» deriverebbe da «kidnabbed», il furto dei bambini bianchi per la schiavizzazione. IlDizionario inglese della malavita dà questa esplicita definizione del «kidnapper» come «un ladro di esseri umani, specialmente bambini, in origine per la loro esportazione nelle piantagioni del nord America» (9). 
La descrizione di questo commercio di schiavi-bambini dai porti di Gran Bretagna e Scozia non è dissimile da ciò che avviene oggi con gli scafisti: «Squadre arruolate da mercanti locali percorrevano le strade, catturando con la forza ragazzini che sembravano adatti per il commercio di schiavi. Venivano ammucchiati in capannoni per l’imbarco…Così evidente era questa pratica, che la gente del contado nei pressi di Aberdeen evitava di portare i bambini in città per timore che li rapissero; e così diffusa era la complicità dei mercanti, spedizionieri, fornitori, e perfino magistrati che l’uomo che li denunciava era costretto a ritrattare e fuggire dalla città (Van der Zee, Bound Ove, pag.210)» (10).
E poiché i viaggi duravano da 9 a 12 settimane, nei secoli XVII e XVIII le perdite umane furono ingentissime, fino al 50% del prezioso carico. Uno schiavo bianco veniva confinato in una buca lunga non più di 16 piedi, incatenato con altri 50 compagni ad un’asse, con collari chiusi con lucchetto. Le settimane di reclusione sotto i ponti nelle stive soffocanti spesso sfociavano nello scoppio di malattie contagiose che facevano piazza pulita del «carico» o «merce bianca» incatenata ad un’asse della nave (11).
Del resto, soltanto… «nel febbraio del 1995 il Senato del Mississippi, uno dei baluardi storici del razzismo Usa, ha approvato il XIII emendamento della Costituzione americana, siglato nel 1865, secondo cui la schiavitù volontaria o involontaria non potrà esistere entro i confini degli Stati Uniti» (12)!
Y. Moulier Boutang, nella sua monumentale opera sulla storia del lavoro salariato (13), mostra come all’origine dell’abolizione della schiavitù ci fosse la superiorità marittima dell’Inghilterra che volle servirsene come vantaggio per introdurre un mercato sia interno che internazionale di libero scambio nella compravendita della forza-lavoro, in un momento in cui l’economia mondiale funzionava certamente in modo più economico. Dal canto suo, Edward E. Baptist (14) dimostra che la schiavitù era un metodo assai conveniente per estrarre plusvalore dagli esseri umani, di gran lunga superiore rispetto al lavoro «libero» (salariato), nel faticoso lavoro di semina e raccolta del cotone. Una forma particolarmente brutale di capitalismo, ispirata dall’uso spietato benché economicamente «razionale» della tortura abbinato a un’ideologia disumanizzante del razzismo. La perdita della sua colonia più prospera, gli USA, le tempeste rivoluzionarie che attraversavano l’Europa intera e, di riflesso, il mondo, condussero l’Inghilterra ad operare una revisione profonda delle regole degli scambi economici a livello internazionale. Si affermava così tra il 1815 e il 1880 il liberalismo economico, commerciale, politico e quindi il modello incontestato della modernizzazione e della crescita capitalistica, quando ciò diventava a sua volta economicamente più conveniente. Ancora una volta il liberalismo nasce dal contrasto tra forti interessi economici, dalla concorrenza capitalista tra stati nazionali, un altro dei suoi prodotti più degenerativi della specie e dell’ambiente, contrasto in cui ebbero ovviamente molta parte le lotte stesse dei lavoratori nella fase estensiva del plusvalore assoluto, tendenti ad elevare il prezzo della forza-lavoro mediante lo strumento della contrattazione.
La fase successiva del processo, non certo lineare, ma segmentato e contrastato, è quella che ha visto la formazione di un mercato mondiale della forza lavoro ormai riducibile anch’essa ad oggetto–valore quantificabile separabile dal suo naturale detentore, «libero» in senso marxiano di espropriato di tutto tranne che della funzione di erogare forza-lavoro, e il cui momento importante è il passaggio dal capitalismo estensivo al capitalismo intensivo, ossia, marxianamente, dal plusvalore assoluto al plusvalore relativo e nel cui contesto si situano le migrazioni internazionali, la crescente urbanizzazione del mondo e relative lotte di classe.

Note
(1 ) Liberalismo e libertà: l’ossessione dellaproprietàprivata e le origini della schiavitùdell‘uomo-merce, 22 sett. 2015.

(2 ) Oliver Cox, Caste, Class and Race, New York, 1959, p. 91, cit. in L. Goldner, L’avanguardiadellaregressione, Torino.

(3) Su ciòcfr. ilsaggio di L. Goldner cit.

(4) Cit. da M. Hogden in Early anthropology in the Sixteenth and Seventeen Centuries, Philadelphia 1964, pp. 421-422, Su tutta questa materia cfr. Loren Goldner, Il concetto di razza e il secolo dei lumi (1997), Parte I: Prima dei Lumi: La Spagna, gli Ebrei e gli Indiani; Parte II: L’Illuminismo anglo-francese e oltre (1998), in Loren Goldner, L’avanguardia della regressione, PonSinMor, Torino.

(5) Op. cit., p. 154

(6) Liberalismo e libertà, cit.

(7 ) Michael A. Hoffman, Il capitalismo non sopravvive senza la schiavitù, http://informare.over-blog.it/article-il-capitalismo-non-sopravvive-senza-la-schiavitu-121909920.html

(8 ) Herbert S. Klein, Il commercioatlanticodeglischiavi, Carocci, Roma. 

(9) Dati in Michael A. Hoffman, Il capitalismo non sopravvive senza la schiavitù, cit.

(10) Ibidem.

(11) Ibidem

(12) «Corriere della Sera», 19 febbraio 1995.

(13) Dalla schiavitù al lavorosalariato, Manifesto libri, Roma 2002.

(14) Cfr. recensione di Paul Street a Edward E. Baptist, The Half Has Never Been Told: Slavery and the Rise of American Capitalism [La metàtaciuta: La schiavitù e l'ascesa del capitalismostatunitense], New York, Basic Books, 2014, in http://www.telesurtv.net/english/opinion/Capitalist-Cotton-Slavery-and-a-Case-One-Would-Think-for-Reparations-20150228-0022.html

Fonte: Attilio Folliero
Pubblicato su sinistrainrete.info

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.