di Alessandro Robecchi
Il deputato Pd Michele Anzaldi ha fatto una sua speciale critica televisiva alla scaletta di un talk show. Nei cahiers de doléances di Anzaldi sono finiti – mischiati a varie vittime civili, diciamo così – anche due scrittori: Nicola Lagioia, recente premio Strega, accusato di “dire che in Italia fa tutto schifo” (reato federale!) e Roberto Saviano, definito “deprimente”. Non si tratta di avversari politici a cui contestare minutaggi di esposizione mediatica o passaggi televisivi. No, si tratta proprio di una contestazione nel merito degli argomenti, un dissenso sui contenuti, si sarebbe detto una volta: di un attacco ideologico. E’ un classico del nostro tempo: dire che va tutto male, o anche solo negare che tutto sia bellissimo e in via di cambiaverso, o (peggio!) essere deprimenti, è considerato antinazionale, forse antipatriottico, certamente antigovernativo e sconveniente alle magnifiche sorti e progressive che sarebbe opportuno – in attesa che diventi obbligatorio – decantare.
In un Paese dove gli scrittori contano poco e sono ascoltati pure meno, criticarli per loro opinioni sembrerebbe un controsenso, un esercizio sterile. Eppure, nell’era della narrazione renziana è comprensibile che finiscano nel mirino proprio i narratori, considerati concorrenti in grado di narrare meglio, e più realisticamente, l’epoca dell’ottimismo, della volta buona, dell’Italia che riparte e di tutta la retorica boriosa e trionfalistica che ci viene consegnata ogni giorno. Nulla che si opponga allo storytelling corrente (stupiamo il mondo, saremo più forti della Germania, crediamoci, coraggio, rimbocchiamoci le maniche, basta con piagnisteo, attacchiamo la Kamchatka!) verrà risparmiato, fossero anche i poveri scrittori che nella scala dell’opinione pubblica contano meno di uno spot di Eataly (a meno che non lo scrivano loro).
Il prode Anzaldi non è un fulmine isolato. Un altro scrittore, Erri De Luca, è a processo per un reato d’opinione, accusato di aver fomentato rivolte contro interessi superiori, quelli della Tav. Un altro scrittore, Stefano Benni, ha rifiutato un prestigioso premio dicendo chiaro e tondo che non lo avrebbe ritirato dalle mani di un ministro della cultura di un governo che la cultura la calpesta spesso e volentieri. Alla risposta piccata del ministro Franceschini, irta di numeri e soave burocrazia, Benni ha risposto da par suo, con ironia sottile: segno che un buon narratore non accetta narrazioni precotte e, tra l’altro, identiche da decenni.
Ma resta il fatto: siamo vicini a quella speciale critica letteraria che fanno i regimi: scrittori, siete disfattisti, e “deprimenti”, remate contro, non vi adeguate. Ancora una volta, sottotraccia, c’è la vecchia storia dei “cattivi maestri”, mentre si dichiara che sarebbero graditi solo maestri buoni, certificati, con il timbro e la garanzia di non disturbare i lavori in corso. Non si tratta, per una volta della solita battaglia tattica per il controllo dei media, due minuti a me, due minuti a te, ma di una vera indicazione d’intenti. Il “deprimente”, il “sabotatore”, quello che dice “va tutto male”, quello che non ritira il premio per polemica, e chissà quanti altri scrittori che non seguono l’onda, risultano esplicitamente sgraditi, e questo senza che il mondo della cultura abbia molto da ridire. Forse è questo il “rimettere al centro la cultura” di cui si parla tanto. Al centro del mirino. E s’avanzi, tra gli applausi, l’intellettuale “comodo”.
Fonte: MicroMega online - blog dell'autore
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