di Enrique V. Iglesias
Come possiamo migliorare lo standard di vita della maggioranza della popolazione? L’esperienza degli scorsi decenni in America Latina ci permette di costruire un paradigma economico che lo stato e la società.
Una società modello non è una società che accumula la maggior parte dei beni, ma è una società che ottiene la maggior felicità per i suoi membri. Nel 2008 due economisti vincitori del Premio Nobel, Joseph Stiglitz and Amartya Sen, sono stati a capo della Commissione per la Misura della Performance Economica e del Progresso Sociale (CMEPSP- Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress). Il rapporto che hanno pubblicato un anno dopo concluse che il benessere dipendeva dal reddito, dal consumo e dalla ricchezza, ma anche dall’istruzione e dalla salute, dalla partecipazione al processo politico e alla vita sociale, dalla qualità dell’ambiente e dalla possibilità di vivere in pace – in altre parole – sia da fattori oggettivi che soggettivi.
E’ possibile costruire una società migliore, più giusta e più sicura. Le nazioni latino-americane sono state costruite in seguito alle rivoluzioni per la liberazione, a battaglie per l’indipendenza e contro l’oppressione coloniale. La storia è costruita sul dolore, le lacrime, il sangue e le rotture. E, tuttavia, la storia è ancora guidata dal desiderio di maggior libertà, di migliori condizioni di vita, di dignità, di giustizia e di elementare onestà.
Possiamo costruire un paradigma economico basato su sei lezioni ricavate da tali esperienze.
Prima, la via allo sviluppo non è facile, non ci sono soluzioni miracolose. Lo sviluppo richiede uno sforzo prolungato nel tempo e un approccio pragmatico alla scelta di strumenti che si devono usare. (…) Come ha detto l’economista e storico brasiliano Celso Furtado (1) nel 2004: “Quando il progetto sociale evidenzia un vero miglioramento delle condizioni di vita per la maggioranza della popolazione, la crescita diventa sviluppo. Questo tipo di cambiamento, però, non è spontaneo, ma piuttosto è il risultato di una volontà politica” (2).
Seconda, dobbiamo avere una stabilità macroeconomica. Le soluzioni per i problemi relativi al bilancio o valutari, devono essere legate alla ricerca di un miglioramento delle condizioni sociali.
La terza lezione è che l’ambiente politico e legale deve essere favorevole all’investimento e alla crescita. Essi anche un’efficiente azione pubblica per la ridistribuzione della ricchezza e della uguaglianza sociale.
Quarta, dobbiamo eliminare l’illusione che i mercati si possano regolamentare da soli. La crisi finanziaria del 2008 ha dimostrato, se fosse stato necessario, che abbiamo bisogno di nuovi meccanismi finanziari di regolamentazione, sia a livello internazionale, che all’interno di ogni nazione, con la partecipazione dello stato. La continua crescita della disuguaglianza e la crescente frammentazione del mondo richiedono maggiore responsabilità da parte dello stato.
La quinta lezione – fondamentale – è la necessità di maggior inserimento della scienza e della tecnologia nel processo di produzione, per mezzo di politiche del governo che promuovano attivamente la ricerca e l’innovazione – il cervello prima delle materie prime. Le innovazioni tecnologiche e l’ingegnosità aprono la strada verso il progresso e la prosperità, mettendo fine alla povertà, e alla profonda disuguaglianza ed esclusione.
Sesta, dobbiamo fare una rivoluzione educativa, completare ciò che abbiamo già raggiunto in termini di accesso all’istruzione, e fare un salto qualitativo. L’educazione è lo strumento fondamentale di crescita economica e di mobilità sociale.
Verso l’uguaglianza
Dobbiamo riflettere proprio sul concetto di crescita. “Crescita zero” era stata vista come possibile opzione fin dagli anni ’70, ma l’idea di riconciliare lo sviluppo economico con la protezione ambientale ha vinto.
Chiaramente il nostro pianeta non può sostenere gli stessi livelli di consumo per tutti i suoi abitanti – l’obiettivo se dobbiamo avere l’uguaglianza. Potremmo forse opporre la frugalità al consumo, ma questo significa raggiungere un grado di uguaglianza, ora o nel futuro.
Alcuni paesi latino-americani usano un concetto che è ancestrale per le comunità indigene delle Ande, ma nuovo per noi – benessere o “vita piena” – buen vivir o vida plena ((sumak kawsay in lingua Quechua andsumak qamana in lingua Aymara)*. Sebbene tratto da altre tradizioni, tale concetto rassomiglia a qualcosa che Padre Lebret (3) ha sostenuto 60 anni fa: mettere gli esseri umani al centro dell’economia. Quel concetto è scritto nelle costituzioni dell’Ecuador e della Bolivia e contesta il “tradizionale concetto di progresso con i suoi eccessi produttivisti”. Promuove invece un’economia sostenibile attraverso la solidarietà, abbandonando “la logica dell’efficienza, intesa come accumulo materiale sempre maggiore” (4). Chiaramente questo tipo di cambiamento è più palese nei discorsi che in pratica: è necessario esaminare attentamente il rapporto tra mercati, stato e società.
Che eredità desideriamo trasmettere alle generazioni future? Un primo approccio è incentrato su tre punti fondamentali: valori, risorse e istituzioni.
Primo, secondo la mia opinione la storia ha dimostrato che non ci sono valori assoluti a lungo termine o ricette chiare per la felicità. Anche così, alcuni valori sono strettamente legati alla sopravvivenza della nostra specie. Questo è il motivo per cui la solidarietà o la generosità (intese come dare o dedicarsi agli altri) porta soddisfazione, piacere e delle volte felicità. La storia della civiltà è la storia della capacità umana di comprendere che noi siamo l’Altro, o, almeno, una parte di quell’Altro. La società deve essere consapevole di questo valore.
Secondo, il cambiamento è permanente, inevitabile e molto difficile da prevedere. Le reti ci mettono in grado di incontrarci, lavorare e commettere reati, ma anche di organizzarci e di chiedere la libertà. La tecnologia aumenta il nostro potere, ma non determina il modo in cui quel potere dovrebbe essere usato.
Terzo, i valori che ci piacciono e che sono importanti per noi sono quelli che ci mettono in grado di andare avanti verso una società più giusta, più ugualitaria – una società che ha più rispetto per le differenze, per la vita in generale, e per l’ambiente in particolare. L’educazione di stato deve trasmettere questi valori che sono necessari per costruire la società che vogliamo, in modo lucido e deliberato.
La sfida della globalizzazione
La rapida globalizzazione del mondo moderno potenzialmente ha molte buone conseguenze per l’umanità, ma aumenta anche il rischio di scontri e di conflitti a causa del suo perverso impatto sulle persone e sui governi. Possiamo affrontare questo soltanto per mezzo dei nostri valori, tradizioni e culture. Le persone costruiscono le loro identità individuali sulla famiglia e i valori collettivi e la cultura che permea la società in cui vivono. La perdita di identità ostacola lo sviluppo personale e porta a un comportamento primitivo di identificazione, come il fanatismo.
Viviamo in una società dominata dalla ricerca del profitto e del vantaggio personale, dove le decisioni vengono prese per motivi individualistici, egoistici e materialisti, il che contribuisce a nuove forme di corruzione. Questo è il motivo per cui dovremmo promuovere la solidarietà, l’interesse collettivo e una cultura in cui la creatività individuale andrà sempre di pari passo con l’interesse per gli altri. Il desiderio di armonia è l’altro valore di cui abbiamo bisogno. La pace è costruita sulla giustizia, sulla consapevolezza di un bene comune al di sopra degli interessi di settore, di azienda o di classe.
Il compito di sviluppare quei valori, non può però ricadere soltanto sullo stato: deve essere coinvolta la società nel suo insieme.
Quando si tratta di risorse, potremmo riferirci alla definizione contenuta nel Rapporto Brundtland, ratificato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1987: “soddisfare le necessità del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le loro” (5). Quindici anni prima, ho avuto il privilegio di prendere parte alle preparazioni per la Conferenza dell’ONU sull’Ambiente Umano tenutasi a Stoccolma nel 1972, che aveva Maurice Strong come segretario generale. Questo mi ha messo in grado di vedere lo sviluppo nel contesto dei problemi della crescita demografica, dell’urbanizzazione, del danno ambientale e dell’uso delle risorse naturali. La conferenza è stata fondamentale per riconciliare lo sviluppo economico con la protezione della natura e per far avvicinare le posizioni delle nazioni industriali a quelle dei paesi più poveri, per esempio quelli del Movimento dei Paesi Non Allineati. Il rapporto finale, redatto dall’economista Barbara Ward e da René Dubois (6) ha accolto quel concetto di sviluppo sostenibile.
Tra il 1972 e il 1992, le crisi economiche e i disastri ambientali, e gli avvertimenti degli scienziati, hanno aumentato la consapevolezza che i problemi da affrontare stavano crescendo. Altri eventi seguirono, come la Conferenza di Rio nel 1992 e il fallimento del Protocollo di Kyoto del 1997, in cui avevamo posto così tanta speranza, mostravano i nostri limiti nel combattere per la vera sostenibilità nella crescita e nel moderare il nostro desiderio di dominare la natura.
Infine, per costruire un edificio democratico sempre più solido, abbiamo bisogno di conservare lo stato di diritto, uno dei grandi catalizzatori per la trasformazione dello sviluppo economico in sviluppo sociale, completo di inclusione e coesione sociale. Oggi lo stato di diritto deve svolgere un ruolo maggiore nell’economia e nella società. Deve diventare più efficiente nel regolare le relazioni economiche e il modo in cui operano i mercati, mentre si prendono cura dei settori sociali trascurati e dei diritti dei cittadini. I governi di crisi devono diventare governi di sviluppo.
Enrique V. Iglesias è un ex presidente della Banca Inter-Americana di Sviluppo ed ex segretario esecutivo della Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi (ELAC).
Note
Celso Furtado 1920-2004 è stato ministro in due governi e ha anche lavorato all’ECLAC (Economic Commission for Latin America and the Caribbean – Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi) –
Celso Furtado, Los desafíos de la nueva generación” (Le sfide della nuova generazione) alla terza conferenza internazionale del Network Celso Furtado, maggio 2004.
Louis-Joseph Lebret (1897-1966) era un monaco domenicano ed economista francese. Nel 1942 fondòEconomia e Umanesimo, un centro di ricerca a Lione dedicato a “mettere l’economia a servizio dell’uomo”.
Vedere gli scritti di Alberto Acosta Espinosa, economista e politico ecuadoriano.
Gro Harlem Brundtland, “Our Common Future”, (Il nostro futuro comune) World Commission on Culture and Development (Commissione mondiale per la cultura e lo sviluppo), (Brundtland Commission), (Oxford University Press, 1987.
(6) Rapporto preparatorio alla Conferenza dell’ONU di Stoccolma sull’Ambiente Umano, in seguito pubblicato come libro con il titolo Only One Earth [Soltanto una terra], 1972
Pubblicato su www.znetitaly.org
Originale: Le Monde Diplomatique
Traduzione di Maria Chiara Starace Traduzione©2015 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC By NC-SA
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