di Angelo Tonnellato
Finalmente, l’attesa e sollecitata edizione integrale del Diario di Calamandrei arriva in libreria. Va dato merito a Tommaso Codignola, in continuità, non solo editoriale, ma etica e civile, con la comunità calamandreiana dei suoi «maggiori» – il bisnonno Ernesto, il nonno Tristano, il padre Federico – di aver degnamente corrisposto a una sollecitazione di lunga data della cultura italiana. Queste le coordinate del libro: Piero Calamandrei, Diario 1939-1945, introduzione di Mario Isnenghi, 2 voll., Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2015. Prezzo dei due volumi euro 56.00, che si possono ordinare anche sul sito dell’editore a euro 47.60.
L’edizione del 1982, come si sa, fu realizzata con alcuni omissis, dettati dalla cautela verso persone, allora ancora in vita, e dal desiderio di Franco Calamandrei di attutire qualche punta particolarmente acre dei numerosi «paragrafi dello scontento» compilati su di lui dal padre. Notazioni che erano il riflesso e la proiezione d’un dissidio che, emerso fin dal 1937-38, era venuto dilatandosi, negli anni successivi, su latitudini non solo politiche, come uno sciame sismico di cui il (troppo) sensibile e fibrillante sismografo paterno era venuto registrando tutte le evoluzioni e impennate.
Non poche volte, peraltro, esacerbando e irrigidendo i contrasti sotto l’effetto di una solitudine che lo conduceva, da un lato, a far fibrillare le sue scontentezze fino ai limiti di una quasi vendicativa insofferenza e, dall’altro, a restringere – come nella sequenza di un precipite – la messa a fuoco dei suoi propri «dintorni» relazionali alle dimensioni e andature di un microcosmo che, apparendogli, appunto, addirittura privo di un condiviso «lessico famigliare», risulta in definitiva affidato al solo codice dei segni – il rimpicciolito e clandestino esperanto dell’opposizione moderata al fascismo – in vigore nel vigilato circuito di una ridottissima pattuglia di persone fidate.
Non poche volte, peraltro, esacerbando e irrigidendo i contrasti sotto l’effetto di una solitudine che lo conduceva, da un lato, a far fibrillare le sue scontentezze fino ai limiti di una quasi vendicativa insofferenza e, dall’altro, a restringere – come nella sequenza di un precipite – la messa a fuoco dei suoi propri «dintorni» relazionali alle dimensioni e andature di un microcosmo che, apparendogli, appunto, addirittura privo di un condiviso «lessico famigliare», risulta in definitiva affidato al solo codice dei segni – il rimpicciolito e clandestino esperanto dell’opposizione moderata al fascismo – in vigore nel vigilato circuito di una ridottissima pattuglia di persone fidate.
Se quel dissidio, dopo essersi ritrovati, Piero e Franco, a Roma, nel luglio del ’44, era venuto addolcendosi, dall’incontro non si può dire che riuscissero del tutto conciliati gli spessori e stridori etico-politici entrati in circolo tra loro due. Il «figlio fascista», il «figlio comunista»: l’avvelenata dialettica circolante nei «dintorni» relazionali di Piero e in lui stesso, ben colta da Franco nel “ricordo” scritto proprio per la prima uscita del Diario, sembrava sancire ancora, fra privato e pubblico, l’antico, reciproco allontanarsi e le ostinazioni paterne, compaginatesi, nell’asprezza della «guerra del dopoguerra», di ulteriori, spiralistiche rimuginature. Un padre, un figlio, la guerra, la resa, lo sfibrante alternarsi di speranze e scoramenti, l’estenuante regestazione di un proliferante spartito di voci e ipotesi, spesso incontrollate, la Resistenza, la Liberazione. E Piero, “fuoruscito” interno, che a molti lettori del Diario – anche al consentaneo Giorgio Agosti dei lavori preparatori dell’edizione del 1982, per dire – sembra intrappolato nella scia di una maligna cometa di fughe e rintani e di una riduzione di sé alla misura piccolo-borghese della preoccupazione per le case, le cose e le private angosce. Lettura, per vero, con non pochi appigli nelle pagine diaristiche; ma, del pari, nella sua disposizione ad ancorarsi al ductus di quella stremata quotidianità messa a verbale, disinteressata a mettersi in traccia di ragioni più complesse di quelle che spesso si mettono a tema nella riflessione su di lui, non ultimo un ordine di arresto a suo carico pendente dai giorni immediatamente successivi all’8 settembre e i cui documenti ho pubblicato qualche tempo fa. Padre e figlio si ritrovano, in una Roma insanguinata, trapassata dall’occupazione nazifascista alla Liberazione senza neanche un’insurrezione. Il padre, quasi ostaggio del suo «mondo di ieri», prigioniero del suo stesso «dispatrio» – a tratti balugina, tra le interlinee del diario, addirittura l’ombra di una meneghelliana consapevolezza di occupazioni e studi «inutili e in parte nocivi» – e il figlio, nome di battaglia Cola, passato da protagonista attraverso la lotta clandestina romana e via Rasella, topografia dell’evento più dirompente e controverso della Resistenza. Il figlio «gappista» di un borghese risorgimentale e carducciano; e, tra loro, sfigurata e agonizzante, «una patria di ceneri di radici», che non sarebbe potuta essere più diversa, pur essendo la medesima, per l’uno e per l’altro. Il dolorante pentagramma delle voci in contrapposizione, del padre e del figlio, perde, dopo la liberazione di Roma e la «battaglia di Firenze», gran parte delle note acute e dei movimenti concitati, ma il tarlo che scava dentro le loro storie, entro un certo spettro di incrinature, sfaldamenti e anchilosi, ancora blocca i parametri di progressione del loro dialogo. Certi avvitamenti non basta, neanche oggi, l’immancabilepassepartout della «clef générationnelle» ad allentarli; e alcuni accumuli inconciliati ancora ristagnano nelle giunture di un parlarsi su un filo teso, rispetto al quale lo storicismo degli storici non ha ancora fatto i passi ulteriori, e forse decisivi, che ci saremmo aspettati se ci si fosse messi al lavoro non su tracciati meramente constatativi, ma su certe frequenze disturbate, nell’ellissi in cui, cioè, qualche volta, le cose si possono misurare solo dalle loro ombre e proiezioni; e dove, se lo storico non lo regge con perizia e scaltrezza, l’intreccio si sfibra e – per dirla con Montale – quando «altro tempo frastorna la memoria», la memoria prevale sulla storia. Mentre dovremmo preoccuparci di seguire soprattutto il filo della storia, perché è nella storia che «un filo s’addipana» sempre.
Isnenghi e il «Diario»: un’«Introduzione» per la storia (e la storiografia)
Partiamo dall’incipit del folto saggio introduttivo premesso da Mario Isnenghi a questa edizione integrale:
"È un grande diario: attraversamenti d’epoca su un crinale della storia – 1939-1945 –, traiettorie di un paese grazie a un capitolo cruciale dell’autobiografia pubblica e privata di un io narrante d’eccezione."
Sono le prime battute di un’interpretazione indubbiamente forte di Calamandrei. Una trentina di belle e ricche pagine che ritagliano il loro luogo critico, alto ed esperto, a distanza di sicurezza da quella sorta di punto franco delle riletture calamandreiane, diffusesi in anni recenti, in cui tutto sembra destinato a essere reversibile, palindromico, ambiguo, sfocato, astuto, dissimulato, come in una scena barocca o in un andar per biografie come fabbrica di occasioni e fiera campionaria di un’oggettistica che della candid camera sempre aperta sugli interni e sui nascosti si propone pur sempre come primaria voce in diretta. Si leggono sempre più spesso, su Calamandrei, negli ultimi tempi, trafelate dicerie la cui colonna sonora ben consuona con un certo rap delle eterogeneità e delle selezioni arbitrarie, accumulate o ritagliate attraverso “giochi” giornalistici che intrattengono, con la storiografia, lo stesso rapporto che certi “smorfiatori” di sogni napoletani avevano con la psicoanalisi. Con la differenza che gli impareggiabili professionisti napoletani della divinazione dei numeri del lotto avevano almeno una certa accattivante e affabile mimica epicurea che rendeva quanto meno innocua l’inutilità della loro “scienza”. Mentre questi altri non hanno neanche il senso del ridicolo.
Introdurre per interpretare
Un’interpretazione forte, dicevo, quella di Isnenghi. Non occasionale, laterale, incidentale; bensì, cresciuta e maturata negli anni, arricchitasi di riflessioni e analisi: dagli uffici «P» ai giornali di trincea, dalla costruzione della memoria della Grande Guerra alle diaspore interiori degli anni trenta, dalle indagini minute e ariose sulle poetiche politico-storiografiche calamandreiane, rintracciabili leggendo le prime annate de «Il Ponte», al deciso, maturo “frontalizzarsi” della prospettiva critica dello storico veneziano nelle pagine dedicate al giurista fiorentino nella sua più recente, laterziana Storia d’Italia.
Introducendo il Diario, però, più che altrove, Isnenghi affronta un testo capitale di Calamandrei uomonella storia, più che della storia. Ed entra nell’officina dei pensieri del diarista, nell’humus concettuale, storico, politico e umano che precede e giustifica – pregiudica, anche, e inclina verso certe direttrici d’affioramento o infaldamento – la scrittura, a quest’ultima tenendo sempre, tuttavia, consertata la filatura interpretativa. Dalle sensazioni ambientali al paysage mentale e a quello interiore nulla delle squadrature calamandreiane, fra “vissuto” e “rappresentato”, sfugge allo storico abituato per lunghi coltivi a mettere a frutto evidenze eterodosse o apparentemente spurie rispetto alla linea del viaggio storiografico. Vi entra, lo storico, in quella stratificazione, senza tagliar fuori la flessibilità delle proprie occasioni di lettura; e, tuttavia, senza pretendere di radicarsi come figura sostitutiva o surrogatoria del diarista: ruoli chiari, ognuno con il proprio respiro e le sue storie; e, quindi, senza razionalizzare – in accodamento o ripudio – il “sistema” mentale dell’autore analizzato, ma cercando di capire cosa c’è prima del testo e quali pensieri lievitano dietro a esso. Sotto questo riguardo, lo storico veneziano ha lavorato con straordinaria misura critica a una lettura e a un’analisi non solo storiograficamente molto concentrate, ma di finissimo, spesso prezioso, intaglio interpretativo e di elegante, letterariamente e psicologicamente scaltra e captante, capacità di smontaggio e rimontaggio dell’universo e del microcosmo del personaggio.
Tanto per fornire al lettore il qui e ora dell’affrontamento critico che Isnenghi produce sul Diario senza perdersi in schermaglie:
"Il filtro personale è quindi all’origine della visuale e del senso; e, anche se non vi può essere ricompresa una vita, più estesa e più complessa di un quinquennio, le esperienze che precedono si fanno sentire, il vissuto, ciò che il cinquantenne Piero Calamandrei pensa di sé, i suoi stati umorali e la sua malinconia di fondo. Quanto al dopo ’45, è difficile per il lettore che conosca il seguito non presupporvelo, ma quanto davvero ve ne sia non è un interrogativo da poco."
Il produttore di un film non potrebbe escogitare di meglio per il trailer di una pellicola sul Diario di Calamandrei; né il regista di un cortometraggio del cinema muto avrebbe potuto inventare una didascalia più suggestiva e accattivante, da proiettare sullo schermo come ciak iniziale, preludio al primo fotogramma e bussola allo spettatore. Insomma, Isnenghi muove in apertura i fili giusti e necessari ad attrarre il lettore, a spingerlo ad addentrarsi nel sentiero critico e nei diverticoli della folta e sapientemise en intrigue dall’introduttore apprestata intorno e dentro le ragioni di una lunga e complessa scrittura privata.
I due brani iniziali che ho prelevato costituiscono un incipit solo in senso formale, quello cioè in cuisembra che prenda avvio una riflessione che in realtà ha solo bisogno di fissare il punto in cui una lunga perlustrazione periegetica si conclude e il racconto prende a convertirsi in maturo e urgente giudizio storiografico. Ecco le ragioni di quel quindi, che ho sottolineato nella mia citazione: anticipazione della tesi, da cui prendere le misure e le mosse degli acta concludentia dell’interpretazione, più che il gusto di fissare un fabulistico, parabolante e divagatoriamente inaugurale «c’era una volta». Da qui in poi, l’immagine ravvicinata di Calamandrei, apparentemente ancora sul crinale delle sue molte, possibili epifanie, è già tutta nell’anamnesi delle sue proprie debolezze e nella ricchezza delle sue non meno numerose possibilità. Le une e le altre in interfoliazione e compenetrazione tra le interlinee di un diario-copione in cui l’inventario di troppi talenti fuori corso – troppo vecchi, troppo vicini all’up-to-date di una quotidianità senza respiro e progetto – avvalorerebbe la lunga, sfilacciata filiera, e datata risalenza, degli sfarinamenti che precipitano nel fondo opaco della scrittura quotidiana, atto di dolore senza atto di fede entro un auto-disdirsi e un rincalzante, pungente auto-dissiparsi che, venendo da lontano e però non d’altrove, farebbero spazio a una dramatis persona che secondo alcune letture – penso, per esempio, a quella francamente inaccettabile di Sergio Luzzatto – si sentirebbe o peggio ancora sarebbe già in stato di impeachment etico-politio:
Su un piano strettamente temporale, la lotta per la Repubblica, la Costituzione, l’epica della memoria partigiana – la nuova e grande stagione della risurrezione di Piero Calamandrei come padre della patria – risultano imminenti. Ma nessuna teleologia, nessuna marcia salvifica verso il riscatto d’Italia attraverso la Resistenza percorre in realtà le pagine di questo manoscritto nella bottiglia che accompagna la solitudine del diarista fra 1939 e i primi del ’45. Nel tempo fermo dei lunghissimi mesi ritirati a Colcello fra 1943 e ’44 – la grigia, immota angolatura della «latitanza» e della disfatta – non c’è una Resistenza dispiegata, o se c’è, lui, da quelle parti, stenta ancora a vederla. Sarà diverso a Roma o ancora di più a Firenze, quando figlio e allievi – ribelli, patrioti, partigiani – mostreranno che la storia si è rimessa in movimento.
Qui c’è tutto. La trama e la sceneggiatura, in compendio; i personaggi in ordine di entrata, in lista d’attesa della storia e pronti a essere mossi e smossi dalle torpide incrostature dell’abitudine a vederli “in posa”, intenti a percorsi de claritate in claritatem, alle prese con sempre finalizzabili “viaggi” dentro il fascismo: corti o lunghi o solo strani. Soccorrono lo storico veneziano sapienze multiple acquisite, affinate ed esercitate nelle lunghe e fruttuose immersioni compiute per decenni in quella fascia letteraria e memorialistico-diaristica della «disfatta», dei blocchi psicologici e delle paralisi della volontà – ma anche del velleitarismo e del malinteso – che fanno di Isnenghi uno dei massimi esperti europei dei naufragi e delle anabasi, degli auto-ammutinamenti e dei folletti e delle feeries che affollano le penultime spiagge: funamboli dell’etico-politico e camminatori sulla corda tesa dell’esistenza sempre a rischio di sparire alla vista, rapiti dal destino.
La decisa rapidità dell’abbordaggio critico introduce anche il fulmineo colpo d’occhio critico, la planimetria delle cose essenziali e l’inventario delle sporgenze e degli svuotamenti etico-politici: lalatitanza in senso proprio di Calamandrei, ricercato dai fascisti dopo i 45 giorni, e perciò rifugiatosi a «Colcello fra 1943 e ’44», è subito la sinopia, il guscio, di un luogo che mille altri ne può simbolizzare, stabilendo un flusso di corrispondenze e, anzi, di equivalenze fra il “dentro” e il “fuori”, nonché il criterio dei rispecchiamenti e la loro comune unità di misura: «la grigia, immota angolatura della “latitanza” e della disfatta», quella in cui «non c’è una Resistenza dispiegata». Qui la scansione riuscirebbe forse troppo decisamente dirompente, per potersene o doversene accogliere tutte le conseguenze e articolazioni senza battere ciglio, se non venisse dal lettore valorizzato al massimo ciò che lo stesso Isnenghi osserva, e cioè che nel diario «non vi può essere ricompresa una vita, più estesa e più complessa di un quinquennio». E, a maggior ragione, «più estesa e complessa» dei mesi colcellesi. Avvertenza puntuale ed esperta; eppure subito travolta dalle ronde di mediocri e orecchianti ventriloqui della divulgazione giornalistica e televisiva, come quel tale, di cui non ricordo il nome né le gesta, che ha subito rubricato sia il saggio di Isnenghi che il diario di Calamandrei sotto l’annusato ed eccitante genere del revisionismo.
Il Diario, su queste latitudini, e con tutta la progressione di cedimenti e incomprensioni e debolezze che ne sarebbero il presupposto, documenterebbe, perciò, non tanto l’urgenza della testimonianza personale e – forse – meno ancora la necessità di situarsi nello stridore delle cose, ma il dramma dissolutivo per antonomasia, quello dell’«infelice borghesia – coinvolta, ma irriducibile e non fascista – dei Calamandrei», che proprio dalla greve zavorra dei coinvolgimenti, sarebbe stata impedita o impossibilitata a riconoscere, praticare o solo immaginare un’antidotaria «alternativa» all’agonia e morte della patria:
Questo è il grande tema, l’amaro senso di chiusura, la morte della patria –dobbiamo proprio chiamarla così; la sconfitta – non solo quella oggettiva, delle armi e degli armati, ma la sconfitta interiore […]: lo sconfittismo, che c’è, indubitabile, e senza particolari e sicuri sensi di condivisione, almeno, di una vittoria di un più grande “noi” ideologico, liberale.
Insomma – è nelle incalzanti notazioni successive che lo storico veneziano chiarisce cosa debba intendersi per «morte della patria», da questo specifico punto di vista – lo «sconfittismo» borghese di Calamandrei e i suoi auspicii di resa agli Inglesi, passando sopra o respingendo ai margini la stessa ipotesi di una sopravvivenza o risurrezione dell’Italia, starebbero lì, nel diario e non solo, a dimostrare «la gravità di questo sabotaggio mentale nel contribuire a negare la Nazione», ancorché al consolatorio fin di bene del «non essere complici di chi la affossa».
Il Diario che Calamandrei, al di là dai talenti autoriali che vi circolano e che lo storico veneziano sa meglio di chiunque altro riconoscere, assume, invero, assai spesso, l’andatura e il rimbombo di campana a morte, di un inventario e regesto di situazioni sfarinate. Aggravati, l’uno e l’altro, se ciò non basti, dalla periodica rimessa in circolo, nelle pagine, di quell’antica, e forse anche un po’ patetica attitudine allo ius murmurandi che faceva scattare il figlio Franco; nonché di angustie prospettiche, di sfocature e silenziosi smottamenti. Tali da fare a tratti apparire questa scrittura privata come il rendering di informi microcosmi occasionali; il luogo intimo, privato, in qualche modo cautelato dalla stessa sua dimensione soliloquente o monologante, in cui forti, drastiche riduzioni di scala dei processi in atto sono eseguite – e consegnate alla pagina – in continuità con «lo “stare” e l’“essere stati” per quindici anni […] dentro i meccanismi di vita quotidiana dei tempi di dittatura».
Per un “secondo tempo” della storiografia su Calamandrei
Evito di addentrarmi minutamente nel lavorio di scavo e riflessioni critiche di Isnenghi. Limitandomi a sottolineare che con queste pagine dello storico veneziano entriamo in uno spazio di attraversamenti e di formazione dell’impianto critico di tutto rispetto. Ciò in ordine a cui non c’è da proporre o far valere gravami di principio, ma solo un invito a leggere in modo critico – ossia attento, sorvegliato, corrispondente ai fatti – una lettura a sua volta attentamente condotta. Incantatoria, se si vuole, se può interessare, dal punto di vista dell’ars scribendi – una coalescenza senza residui e sbavature del cospicuo equilibrio critico che lo storico è venuto realizzando, esattamente collocandosi nel punto d’intersezione tra le sue precise e dense filigranature delle situazioni e dei processi e il serrato annotare intorno, e dentro, alla complessità di una non facile e docile soggettività in campo – fino a saldare le prime e il secondo in una corrispondenza reale, piena e matura; e a rifinire, nella convergenza di sapienza storica e capacità letteraria, un profilo che riesce a mantenersi sempre ad altezza d’uomo, senza aggiramenti e diversioni e colpi bassi.
Calamandrei e la Resistenza. Questo è il punctum realiter saliens; il suo non saperla scorgere e denominare; la mancata adesione, subito, a essa. Un pater risorgimentale, riconosciutala e aderendovi, a essa avrebbe dovuto accompagnare, con l’esempio diretto e concreto, il coinvolgimento, il rischio, e – perché no – il coraggio delle situazioni estreme – dies irae, dies illa – il figlio Franco, con una mano, e con l’altra invece, insieme e distinti, gli allievi diretti e indiretti – Barile, Codignola, Enriques Agnoletti, Furno, Galizia, Cosattini e altri – che pure vi accorsero, ma non accompagnati da lui. Si può obiettare qualcosa? Non si può. Il fatto, in sé, sta nondimeno in questi termini e non in altri: Calamandrei non partecipò attivamente alla Resistenza. E, invero, non ha mai detto o scritto il contrario. Anzi, ha più volte dichiarato, fin dall’estate del ’44, il suo «non eroico», ma, a suo avviso, coerente e non colluso, antifascismo. Perché, e va detto, già dal suo ritorno a Firenze (settembre ’44) cominciarono a circolare quelle accuse: da parte della radio repubblichina di Salò, ma anche di ambienti universitari fiorentini, come da compagni di viaggio. A seconda dei momenti e delle circostanze. Calamandrei rettore? Ecco Sapori e Marsili, un afascista e un fascista uniti almeno in qualcosa: il Codice di procedura civile (Cpc). Calamandrei contro la monarchia? Ecco l’integerrimo amico Rodolico. Calamandrei e l’epurazione? Ecco l’ex fascista Maranini, quello che aveva spiegato la Costituzione di Venezia con la dottrina dell’oligarchia «partito unico». Calamandrei contro l’art. 7? Apriti cielo: comunisti, democristiani e tutta la santerìa proto-compromesso storico in rigurgito. Calamandrei contro Gonella a difesa di Luigi Russo? Ecco l’on. Maxia, che se non avesse accusato Calamandrei di qualche cosa avrebbe lasciato come unico segno del suo passaggio a Montecitorio un’affossatura al centro di una poltrona. Calamandrei per la Corte costituzionale e l’unicità della Cassazione? Ci si mette anche il vecchio Orlando, altrimenti stimatissimo estimatore. Calamandrei contro la rottura dell’unità ciellenista? Ed è la volta del giornale dei “saragattiani”. Tutti quelli da cui egli discorda o che da lui discordano preferiscono, agli argomenti, l’«uso pubblico del passato»: perfino, è doloroso dirlo, Valiani a scoppio alquanto ritardato e Ragghianti a scoppio invero ritardatissimo e con una clamorosa svista che lo induce a parlare di Rocco anziché di Grandi. Per non dire di Gedda, il tristo campione del cattolicesimo feroce, che quando seppe che La Pira avrebbe commemorato Calamandrei in Consiglio comunale, a Firenze, gli intimò di non celebrare – testuale – «l’Anticristo»!
Insomma, sembrava – e ancora oggi sembra – che l’unico problema gravante al centro dell’anima di un’Italia stravolta e umiliata fosse il Cpc. E in realtà non credo che vi sia paese al mondo in cui il Cpc sia polemicamente assurto a tanta gloria. Diceva Brancati che non v’era esule o detenuto politico che, rientrato in Italia o liberato dal carcere, non sentisse l’esigenza, prima di andare a vedere se la sua casa era ancora in piedi, di scrivere una lettera aperta a Benedetto Croce. Talché sembrava che l’unico stupido rimasto in Italia fosse il filosofo napoletano. Col Cpc le cose sono andate, più o meno, allo stesso modo. Con ciò non voglio mica invocare l’oblio su quella vicenda. Dico solo che alle cose andrebbero restituite le loro giuste proporzioni.
Ciò che a me, inoltre, pare che non si possa assolutamente concedere è che, ancorché «non eroico», quell’«antifascismo» possa essere revocato in dubbio attraverso quella sorta di radicalizzazione di posizioni critiche e impoverimento di categorie storiografiche che sempre più spesso, sempre più turgidamente e con sempre minore attenzione e cura delle distinzioni e delle differenze, identifica con la Resistenza armata, il carcere, il confino e l’espatrio l’unico possibile antifascismo. D’accordo che il non fare sarebbe, quando preso non dal lato degli espedienti verbali, ma da quello etico-politico – che per quegli uomini, lungamente elucubranti sulla «storia come pensiero e come azione», doveva pur essere l’ago della bussola – un acconciarsi a fare, appunto, il non fare. Ciò su cui però si può divergere è la concreta determinazione storica di quel non fare. Se il non fare assorbe e ipostatizza tutto ciò che non è stata opposizione passata per il carcere, il confino, l’esilio e la lotta armata, allora occorre dire, con altrettanto turgore e onestà intellettuale, che antifascismo e Resistenza sono stati movimenti non solo minoritari, maminoritarissimi, che dal 28 ottobre del ’22 al 25 aprile del ’45 hanno coinvolto tra i 250 e i 300 mila italiani. E, di converso, riconoscere a De Felice di aver capito prima e meglio di tutti come realmente stessero le cose, tra “consenso”, “zona grigia” e “afascismo”.
Tornando a Calamandrei e al Diario, è in questo senso che ho espresso l’auspicio di un “secondo tempo” della critica. Ossia di una riconsiderazione dei termini di questa nuova querelle «degli antichi e dei moderni» che dica – a noi semplici e modesti lettori di provincia (senza «effetto Serra») – se sia storiograficamente corretta, e quindi corrispondente ai processi storici, la netta cesura che si sta introducendo tra i molti antifascismi moderati o le pure e semplici resistenze passive e l’«antifascismo» armato. E se sia stato solo un equivoco, una mera politica della memoria, la saldatura che, in sede di Costituente, resistenti armati e resistenti disarmati realizzarono dei loro differenti percorsi sulla base del comune denominatore dell’antifascismo non solo come sentimento e stato d’animo, ma come filigrana, per quanto debole ed esile, e spesso inconseguente, di una più ampia trasversale sociale.
Valutare un filosofo o un giurista, per quanto, a modo suo, militante, come un politico tout court, non mi pare il modo migliore e più sensato per guadagnare e valorizzare, in positivo o in negativo, le differenze e le distinzioni. Da questo punto di vista ritengo che possa dare una spinta il saggio di Isnenghi a rimettere criticamente in moto il dibattito su Calamandrei che è, per molti versi, un dibattito di carattere e interesse generali, un dibattito che va ben oltre la biografia e il vissuto del giurista fiorentino. Recuperando tempo e occasioni perdute. Perché Calamandrei rischia di essere più noto che conosciuto: un repertorio per citazioni, come un etymologicon magnum della Repubblica nella cui lemmatica disarticolazione cercare l’ad hoc di volta in volta più efficace. Gli strumenti disponibili per un libero lettore sono tutti molto invecchiati: gli Scritti e discorsi politici (peraltro introvabili e che comunque andrebbero rifatti di sana pianta sia sotto il profilo del metodo che della completezza); l’Epistolario, prodigiosamente realizzato da Agosti e Galante Garrone con quanto fu allora possibile reperire; e mi fermo qui. Anzi no. Vorrei, in più, almeno ricordare che la Camera dei deputati, nemmeno con i suoi parecchi presidenti di sinistra, ha raccolto in volume i discorsi parlamentari di Calamandrei, onore che ha invece concesso a non pochi suoi oscuri inquilini. Certo, alcune occasioni sono state sprecate o non hanno innescato gli approfondimenti e le riconsiderazioni necessarie. Dal lato dei giuristi, Fede nel diritto, nonostante il cospicuo parterre de rois che ne ha accompagnato l’uscita, non mi sembra che la contestualizzazione sia stata del tutto felice. A tratti è sembrato che quel tema, affrontato in quelmomento, riuscisse imbarazzante: una confessione di formalismo e legalismo fuori tempo, per non dire di peggio. Bah! Introducendo le «pasiones del jurista», e parlandone ex professo, Carlos Petit ironicamente invitò a considerare che «los juristas no sole mostratar de certa cosas. Al estudiar la memoria, el amor, la melancolìa y la imaginación en el seno de una facultad jurídica intentábamos hablar de otro modo sobre el Derecho».
Dal lato degli storici. Forse dovrebbero compiere lo sforzo di una messa a fuoco della pluralità calamandreiana. Dalla quale – com’è occorso, per esempio, a chi ha progettato l’ancora oggi incompiuta, laterziana «Italia di Piero Calamandrei», peraltro ricca di lavori pregevoli come quelli di Alessandro Casellato, Mimmo Franzinelli e dello stesso Isnenghi – risulta espunto proprio il giurista e privilegiato in misura massiccia il “pontiere”. Una scelta difficile da comprendere, e impossibile da condividere, che sembra peraltro indirettamente confermare l’accorciamento della biografia di Calamandrei, per altri e più problematici motivi affermata da Bobbio con l’indicazione della nascita del Calamandrei politico al 1944. Come se la Cassazione civile, libro pluriverso, con un suo nucleo interferenziale tra politica e diritto, ricco di contaminazioni radicolari pur nel suo assetto autoritariamente normativo, a tratti felicemente instaurativo, ecistico, non contenesse la cifra stilistica e storiografica di un giuridico «romanzo della Nazione», in cui la politicità del diritto – e l’aveva benissimo colta Giovanni Tarello – affiora e si profila, certo iuxta propria principia, attraverso mille rivoli; e in cui il sillogismo giudiziale non è certo la scolastica svinatura logicistica di un attardato, né il tentativo di esorcizzazione o profilassi di quel “politico”, bensì il meccanismo, uno dei tanti possibili e forse non il più felice, di governo di quella politicità e di posizione delle necessarie distanze. Un libro rischioso e irregolare, se si vuole, che veniva normando un istituto ancora largamente inesistente (fu scritto tra il ’14 e il ’19), quasi dettando al legislatore la regula iuris che avrebbe dovuto, ordinandolo, concernerlo. E si può discordare sulla regulastessa e sulla contestata nomifiliachia; ma non se ne possono revocare in dubbio le andature militanti, la riconoscibilità, senza sovrapposizioni e commistioni, di politica e diritto. E non è lo stesso Calamandrei che nel ’44 dichiara a un redattore di «La Nazione del Popolo» (13 novembre 1944), organo del Cln toscano, di aver intrapreso a Firenze un corso di diritto costituzionale «non tanto per insegnarlo, quanto per impararlo insieme con i mei studenti»? In mezzo – dal 1939 almeno, secondo la puntigliosa testimonianza di Tommaso Fiore – la partecipazione all’elaborazione del progetto istituzionale liberalsocialista: il Decalogo dello stesso Fiore, il Manifesto del liberalsocialismo di Calogero: il lungo e difficile cammino delle «Costituenti ombra», gli incunaboli della Costituente “storica” e, soprattutto, di quella Corte costituzionale che i grandi partiti non avrebbero voluto e i maestri liberali vedevano come il fumo negli occhi.
Fonte: Il Ponte
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