di Stefano Poggi
Dopo la fine del fordismo e lo shock ideologico di inizio anni ‘90, i partiti che storicamente si richiamavano al variegato movimento socialista si ritrovarono orfani di un soggetto sociale preciso. La sparizione (culturale prima che reale) della classe operaia dal discorso pubblico non lasciò spazio ad un valido sostituto: mentre la base sociale delle organizzazioni progressiste si restringeva e progressivamente si imborghesiva, il tema del soggetto sociale veniva completamente rimosso anche dal linguaggio delle sinistre europee, che sempre più tendevano a concepirsi come sagge gestrici della cosa pubblica piuttosto che come espressione di una precisa parte della società.
Insieme ad altri fattori, quello della sparizione del soggetto sociale di riferimento è una delle cause dello stordimento in cui versa la sinistra europea – tanto nella sua versione socialdemocratica quanto in quella più strettamente socialista. Una prima interessante risposta a questo problema è arrivata dalla Spagna (e in parte anche dalla Grecia), dove gruppi dirigenti legati al mondo post-marxista sono riusciti a riaggregare forze sociali all’interno di una dialettica che vede il popolo contrapposto alle élite economiche e politiche, in un’opposizione che trova la sua radice nella distribuzione sempre meno equa delle ricchezze e dell’accesso al potere. In queste esperienze è il popolo ad assurgere a soggetto sociale dell’azione politica progressista.
Il contributo di Ferragina, sociologo calabrese recentemente approdato a SciencesPo in questo caso affiancato dal collega di Oxford Alessandro Arrigoni, indica una differente direzione di marcia, non meno interessante. Secondo l’autore, in Italia sarebbe avvenuta negli ultimi decenni una “grande trasformazione” che avrebbe creato un nuovo gruppo sociale diviso da una grande frammentazione, ma potenzialmente unito dalla richiesta di un cambiamento sociale radicale. Una vera e propria “maggioranza invisibile” costituita dai disoccupati, dai neet, dai pensionati meno abbienti, dai migranti e dai precari; l’autore stima questo gruppo sociale a circa 25 milioni di persone (su 34 milioni di votanti). Solo questa “maggioranza invisibile” potrebbe, secondo Ferragina, evitare che l’Italia esca dalla crisi con una delle ennesime rivoluzioni passive che hanno caratterizzato la sua storia: «Essa può diventare – si legge nell’Introduzione – il riferimento di un nuovo progetto politico egualitario, universale e internazionalista».
Per fare questo è prima necessario che la maggioranza invisibile prenda coscienza della propria identità di fronte agli altri due gruppi presenti attualmente in Italia: i neoliberisti(cioè quelli che vogliono restringere ancora di più lo stato sociale) e i garantiti (cioè tutte quelle persone che sono interessate al mantenimento dello status quo). In tal senso quello proposto da Ferragina è un vero e proprio processo di costruzione di classe. Tale operazione dovrebbe avvenire attorno a strutture organizzate (sindacati e partiti) e soprattutto su un progetto politico di lungo periodo mirato ad una profonda redistribuzione delle ricchezze. Il primo tassello di questo progetto dovrebbe essere la rivendicazione del reddito minimo finanziato da un prelievo fiscale sulle pensioni sopra i duemila euro. A questo punto la maggioranza da invisibile potrebbe trasformarsi in visibile: un fenomeno già sperimentato alle elezioni politiche del 2013, quando il M5S riuscì a conquistare una fetta importante dei sottogruppi che costituiscono la maggioranza invisibile (con la significativa eccezione dei pensionati a basso reddito – il gruppo più cospicuo di quelli elencati da Ferragina).
Il sociologo calabrese traccia questo progetto politico corredandolo di un’utile ricostruzione storica dell’espansione del neoliberismo nella società e nella sinistra europea, facendo un abbondante uso di categorie gramsciane. Secondo Ferragina, l’ordine neoliberale starebbe attraversando una profonda crisi di legittimazione, provocata dal crollo delle economie europee; una crisi di legittimazione che non riesce però a trovare uno sbocco politico a causa della frammentazione (elettorale, identitaria e organizzativa) della maggioranza invisibile. Un’analisi questa che ha qualche punto di contatto con quella proposta in Tempo Guadagnato (Feltrinelli, 2013) dal sociologo tedesco Wolfgang Streeck, secondo cui ad aver perso il consenso popolare non sarebbe tanto l’ideologia neoliberale quanto piuttosto quel peculiare compromesso creatosi fra il capitalismo e la democrazia nel secondo dopoguerra europeo-occidentale.
La via tratteggiata da Ferragina per la ricostruzione di un progetto progressista è quindi una via di riaggregazione dello scontento sociale dei gruppi più deboli economicamente. Una via sicuramente non semplice, considerate le differenze culturali che dividono pensionati, giovani trentenni precari e immigrati di prima generazione. In passato però il movimento socialista riuscì ad aggregare sotto le bandiere della classe lavoratrice/operaia categorie lavorative altrettanto distanti fra di loro: la proposta, seppur di lunga e difficile realizzazione, non è di per sé infattibile.
Le maggiori perplessità sorgono piuttosto sul ruolo di potenziali “alleati” attribuito ai gruppi appartenenti alle classi medie in via di impoverimento. Le mobilitazioni contro la Buona Scuola hanno dimostrato come in esse – pur godendo di maggiore benessere materiale rispetto alle categorie che compongono la “maggioranza invisibile” – si celi un grande potenziale di cambiamento. Certo, è verosimile che tale potenziale possa spingersi solamente fino ad un certo punto – quello della redistribuzione delle ricchezze, per esempio -, ma non ci pare che la proposta politica dell’autore si spinga al di là di dove anche un insegnante moderato potrebbe arrivare. Non essendo all’ordine del giorno la rivoluzione, relegare la frustrazione politica e sociale dei ceti medi in una posizione subordinata a quella dei ceti subalterni potrebbe essere una grande occasione egemonica sprecata. Questo a maggior ragione considerando che – come sottolineava lo storico britannico E.P. Thompson – ogni processo di creazione di classe necessita di un avversario chiaramente individuato e ferocemente combattuto. Leggendo la realtà in un’ottica di scontro fra “maggioranza invisibile” (sostanzialmente le classi popolari) e i “garantiti” il rischio è quello di inserire in quest’ultima categoria anche i milioni di operai e dipendenti pubblici e privati il cui potere (d’acquisto e democratico) è in crollo da decenni. Si rischia, insomma, si dare fiato alla polemica sulla bipolarizzazione dei lavoratori fra “garantiti” e “non garantiti”: a tal riguardo, il libro di Ferragina mantiene degli ambiti di ambiguità che – per quanto probabilmente provocati dal tentativo di rendere il più divulgativo possibile il tono dello scritto – rischiano di intorbidire le acque e di dare – in ultima istanza – nuove argomentazioni alla lotta fra lavoratori che da un decennio le classi dirigenti italiane alimentano.
Al netto di questo rischio, La maggioranza invisibile si qualifica come il primo serio contributo alla ricerca del soggetto sociale del cambiamento nel nostro tempo, mettendo in questo modo in luce un problema tanto sottovalutato quanto fondativo per qualsiasi azione progressista e socialista. Un libro su cui vale la pena riflettere, in vista di una discussione non più rimandabile.
Fonte: Pandora Rivista
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