La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 5 ottobre 2015

Tre gradi e mezzo di caldo in più. L’intesa sul clima è già fallita

di Maurizio Ricci
I politici sono soddisfatti e ottimisti: niente flop, come nel 2009, a Copenaghen. È l’alba di un’era nuova per la politica: dalla conferenza di Parigi, a dicembre, uscirà un accordo mondiale sul clima. Gli scienziati e i tecnici sono preoccupati. La tempesta di violenza inattesa che devastato ieri la Costa Azzurra è l’ennesima conferma che il clima impazzito è già qui. E l’accordo di cui si parla non basta a bloccare il riscaldamento del pianeta e a impedire che, nel giro di qualche decennio, mezza Terra sia scorticata dal sole e l’altra metà (da Venezia a New York, alla stessa Copenaghen) finisca sotto il mare. Chi ha ragione? Tutt’e due.
Nelle parole pronunciate in queste settimane da papa Francesco, da Obama, da François Hollande, il presidente francese che sarà il regista della conferenza di dicembre, è quasi palpabile la sensazione che il mondo abbia acquisito una nuova consapevolezza e una nuova urgenza. Quando, l’anno dopo il fallimento di Copenaghen, a Cancun, tutti i paesi presero l’impegno a fissare limiti volontari alle emissioni di anidride carbonica, sembrò un modo di chiudere le polemiche, con il minor sforzo possibile, rinviando all’infinito gli impegni. Invece, il deterioramento del clima, dalle siccità agli uragani, ha spinto i leader mondiali a onorare la promessa. Praticamente ogni capitale ha annunciato obiettivi e strumenti di contenimento dell’effetto serra. Gli ultimi sono stati il Brasile e l’India. 
Ma la svolta era venuta da Pechino, dove il paese che più di ogni altro sputa CO2 nell’atmosfera si è impegnato a bloccare le emissioni e ha annunciato la creazione, all’europea, di un mercato in cui le aziende si possano scambiare i diritti alle emissioni, all’interno di un tetto predeterminato.
Quello che preoccupa gli scienziati è che tutti questi sforzi, questi impegni, queste svolte sono insufficienti. L’obiettivo solennemente affermato a Cancun è fermare il riscaldamento del pianeta a 2 gradi centigradi, una temperatura che scongiurerebbe le grandi catastrofi di un mondo affamato e desertificato. Senza interventi, infatti, la temperatura media della Terra (con scarti ben più in alto nelle aree tropicali e subtropicali) arriverebbe, nel 2100, ad un aumento di 4,5 gradi, con effetti difficilmente quantificabili sull’intensità degli uragani, sull’estensione delle siccità. Ma gli impegni presi finora per Parigi non bloccano questa deriva. La fermano a 3 gradi e mezzo. Di tanto aumenterebbe la temperatura media del pianeta, nonostante gli impegni presi dai governi di tutto il mondo.
Questo dice il modello preparato da Climate Interactive, una fondazione, insieme al Mit, il Massachussetts Institute of Technology. Sono conti, dunque, da prendere sul serio, perché Climate Initiative non è una fondazione qualsiasi. Molti governi e, in particolare, quello americano, secondo il New York Times , usano i suoi modelli e i suoi calcoli come base dei negoziati. Di conseguenza, l’allarme lanciato dalla loro valutazione è già sul tavolo della trattativa in corso in vista di Parigi. E aiuta anche a capire qual è il suo autentico messaggio politico.
Difficilmente la conferenza di Parigi spingerà i singoli governi a modificare i livelli di contenimento della CO2 appena annunciati e definiti dopo aspri dibattiti interni. Ma la battaglia riguarderà gli impegni futuri. Un contenimento della CO2 ha senso solo se è permanente e crescente. Gli impegni che Stati Uniti, Cina e gli altri grandi paesi hanno preso hanno, però, un orizzonte che si limita al 2025 o al 2030. E dopo? La conferenza di Parigi deve prevedere sin da ora un meccanismo che non solo stabilizzi i livelli raggiunti, ma li abbassi via via sempre di più, con l’obiettivo di arrivare a emissioni zero nel 2100? Il modello preparato da Climate Initiative serve proprio a far esplodere questo problema. Il calcolo che prevede lo sfondamento del limite di 2 gradi è realizzato tenendo conto degli impegni ma anche della loro scadenza. 
Il modello considera che, al 2025 o al 2030, si raggiunga un certo livello, più basso dell’attuale, di emissioni, ma che questo venga semplicemente mantenuto e non ulteriormente abbassato. A questo punto, però, la temperatura ripartirebbe verso l’alto e si arriverebbe ai 3,5 gradi del 2100. Insomma, gli impegni presi finora in vista di Parigi ci faranno guadagnare 10-15 anni di respiro, ma, se non sappiamo fin d’ora che devono aver seguito, saranno serviti a ben poco. L’alternativa è fissare subito una tabella di marcia per la lotta all’effetto serra nei prossimi decenni. Di fatto, un altro trattato di Kyoto. Un’idea che spaventa molti leader politici.
Tanto più che questa tabella di marcia, per essere credibile, dovrebbe prendere di petto l’uso o meno dei combustibili fossili. Il calcolo fatto non dagli ambientalisti, ma dai tecnici dell’Ocse, ha ricordato il governatore della Banca d’Inghilterra, Mark Carney, è che, per non sfondare il tetto dei 2 gradi di riscaldamento planetario, bisogna lasciare inutilizzate sottoterra fra il 70 e l’80 per cento delle riserve di gas, petrolio e carbone esistenti. Ma questo vuol dire azzerare o quasi il patrimonio di molti giganti dell’economia, che quelle riserve hanno negli attivi dei bilanci. Solo alla Borsa di Londra, una azienda su cinque, fra le 100 più importanti, è nel settore energetico. Carney lancia l’allarme: bisogna prepararsi al fallout finanziario del cambiamento climatico. La verità è che gli interessi in gioco sono enormi e a Parigi potrebbe esserci battaglia vera con lobby fra le più potenti al mondo. Dopo il discorso di Carney, infatti, sarà più difficile far finta che il problema non esista.

Fonte: La Repubblica

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