La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 3 novembre 2015

Desaparecidos: il Piano Condor e l'Italia, una ferita ancora aperta

di Cecilia M. Calamani
«È avvenuto, quindi può accadere di nuovo». Così scriveva Primo Levi per metterci in guardia dalla facile tentazione di relegare l'orrore, nel caso quello degli stermini nazisti, ad altri tempi e ad altri luoghi per finire poi nell'oblio, lontano da noi e dalle nostre rassicuranti certezze.
Proprio alle sue parole ho pensato leggendo il nuovo libro-inchiesta di Federico Tulli, "Figli rubati - L'Italia, la Chiesa e i desaparecidos" (L'Asino d'oro edizioni, 10/2015). Dalle 150 pagine del volumetto l'autore fa riemergere dalle nebbie un altro orrore della storia del Novecento che, se pur di proporzioni numeriche inferiori, nulla ha di diverso in quanto a ferocia e inumanità di quello perpetrato quarant'anni prima dalla Germania hitleriana. 
Durante la seconda metà degli anni Settanta, sotto la giunta civico-militare guidata da Jorge Rafael Videla ed Eduardo Massera, 500 bambini argentini, figli di presunti "sovversivi" (attivisti per i diritti civili, sindacalisti, semplici studenti universitari, simpatizzanti socialisti) sono stati sottratti ai genitori e affidati ad altrettante famiglie vicine al regime, affinché crescessero con quei «valori occidentali e cristiani» a cui la stessa dittatura voleva ricondurre con la forza tutto il Paese (il Piano di riorganizzazione nazionale). I genitori di questi bambini sono andati ad arricchire la folta schiera dei torturati e uccisi, la maggior parte delle volte senza lasciare alcuna traccia. Desaparecidos, ossia coloro che non esistono. Né vivi né morti, per dirla alla Videla («No están ni vivos ni muertos, están desaparecidos»). 
Di questi 500 bambini, molti sono figli di giovani donne internate nei campi di concentramento già incinte, lasciate vive fino al parto e poi "eliminate" con i voli della morte nell'Oceano Atlantico o nel Río de la Plata. Prossimi oggi ai 40 anni, questi figli rubati alle loro famiglie, ignari delle loro origini e della terribile sorte dei loro genitori, vengono cercati con dedizione e perseveranza da oltre trent'anni in tutto il mondo dalle Abuelas de Plaza de Mayo (Nonne di Plaza de Majo) che, tramite l'istituzione di una banca nazionale di dati genetici, ne hanno trovati finora 117 (l'ultima a metà settembre 2015 pochi giorni prima dell'uscita del libro). Gran parte di loro sono stati recuperati in Sud America ma le stesse Abuelas stimano che circa settanta potrebbero trovarsi in Italia, anche grazie alle coperture garantite dal noto sodalizio tra la P2 di Licio Gelli e il regime di Videla a chi ha rubato o adottato illegalmente i "figli della Guerra sporca".
La prima denuncia in tal senso risale addirittura al 1982. E fu una denuncia illustre dato che avvenne per bocca del presidente della Repubblica Sandro Pertini durante il tradizionale discorso di fine anno. Rimasta incredibilmente inascoltata, fu lui stesso a reiterarla il 30 aprile 1983 a un giornalista dell'Ansa: «Ho ricevuto le madri di Plaza de Mayo quattro o cinque volte. Una madre è venuta da me a piangere, disperata, non la dimenticherò mai più, e mi ha detto: "Mia figlia in carcere ha partorito. Le è stato tolto il figlio, ed è stato consegnato ad una famiglia italiana". Nel messaggio di fine anno ho ricordato questo episodio. Ho detto che la famiglia italiana cui è stato affidato questo figlio lo restituisca, altrimenti non avrà pace». Una vibrante denuncia di reato che come sottolinea Tulli non ebbe mai seguito. 
Fin qui un orrore (i figli rubati) dentro a un altro orrore (i genitori a loro volta "rubati", torturati e poi trucidati). Ma il libro scende ancora più in profondità e ce ne racconta un terzo che li racchiude entrambi perché estende i confini di questo sistematico annientamento dell'essere umano ben oltre quelli dell'Argentina. Il suo epilogo è un processo che si sta svolgendo da febbraio 2015 - nel pressoché totale silenzio dei media nostrani - nell'aula bunker del carcere romano di Rebibbia: il processo "Condor", dal nome dell'operazione di coordinamento tra governi, servizi segreti, eserciti e polizie di sette Paesi dell'America Latina (Cile, Argentina, Bolivia, Brasile, Perù, Paraguay e Uruguay ) per eliminare gli attivisti di sinistra e chiunque si battesse per i diritti umani. Con il coinvolgimento, o quanto meno l'acquiescenza, del segretario di Stato Usa Henry Kissinger (presidenza Nixon) e della Cia, ossessionati dal pericolo comunista. In cifre, sotto ai vari regimi totalitari che hanno soggiogato l'America Latina tra gli anni Settanta e Ottanta, si contano 50mila tra assassinati o scomparsi (tra cui tremila bambini) e 400mila incarcerati. Il Processo vede imputati capi di Stato, degli eserciti e alti funzionari di polizia e dei servizi segreti accusati di crimini contro l'umanità ma in particolare - e per questo si tiene in Italia - del sequestro e dell'omicidio di 42 giovani di origine italiana. Nella sola Argentina, negli anni di Videla, ne sarebbero scomparsi almeno un migliaio. 
Tra gli imputati spicca la figura di Nestor Troccoli, un ex ufficiale dei servizi uruguayani che da anni vive indisturbato in Italia dopo aver ottenuto la cittadinanza. Troccoli è accusato di aver sequestrato e ucciso 22 persone e l'assenza di una legge contro la tortura nel nostro Paese lo tiene al riparo dal carcere. Sì perché, e anche questo ha dell'incredibile, "el torturador" (così viene chiamato Troccoli in Uruguay) ha ammesso le sevizie in una autobiografia pubblicata in Uruguay e persino in una lettera inviata nel 1996 a El Pais: «Mi assumo la responsabilità di aver fatto cose di cui non mi sento orgoglioso, e di aver trattato in modo inumano i miei nemici, ma senza odio, come deve fare un professionista della violenza. Ma non mi si chiedano particolari dolorosi». 
Tulli però, senza mai smettere di fare il cronista, punta il dito non solo verso i veri e propri carnefici, ma anche verso chi sapeva e ha taciuto e anzi, in qualche caso, ha collaborato. Ne esce fuori un quadro surreale che ricorda il sistema di silenzi e connivenze che l'Italia ha vissuto durante l'espandersi della ferocia nazifascista. Le storie raccolte dal giornalista attraverso la sua minuziosa indagine non lasciano alibi né alle gerarchie ecclesiastiche (argentine ma anche italiane) né all'Italia per il disinteresse verso le mostruosità che stroncavano ogni forma di diritto umano oltre oceano nonostante (o proprio per) lo stretto legame che storicamente la unisce all'Argentina. E ancora oggi poco è cambiato: del processo Condor, una sorta di Norimberga dell'America Latina, ci informa un libro di inchiesta e non chi per mestiere dovrebbe diffondere verso il grande pubblico un evento di così grande valenza storica. 
Torniamo così all'inizio e all'avvertimento di Primo Levi. È già avvenuto quindi può accadere ancora. Ma la possibilità evocata dal reduce di Auschwitz si tramuta in certezza: l'orrore si è sviluppato di nuovo e sempre in seno ai valori occidentali e cristiani, i nostri. Alzare la soglia della coscienza collettiva sulla Storia appare sempre più l'unica speranza. 

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Per gentile concessione dell'editore pubblichiamo due capitoli del libro “Figli rubati. L'Italia, la Chiesa e i desaparecidos” di Federico Tulli, L'Asino d'oro edizioni

Nonni, figli e nipoti italiani 

Quando Estela Carlotto subentrò a Chicha Mariani alla presidenza delle Abuelas era un’altra nonna in cerca di un bambino disperso. Ad aprile del 1978, Estela, allora direttrice di una scuola a Rio de la Plata, seppe da un ex prigioniero che sua figlia Laura di 23 anni, dirigente della Juventud Peronista, i Montoneros, rapita a novembre del 1977 era trattenuta nel campo di detenzione La Cacha ed era incinta. Poiché conosceva la sorella di un importante generale andò da lui chiedendo di intercedere per il rilascio di sua figlia. Quella conoscenza fece sì che alcuni mesi più tardi Estela e suo marito venissero convocati in caserma dove fu consegnato loro il cadavere della figlia crivellato di colpi. Pochi giorni dopo Estela Carlotto entrò a far parte delle Abuelas di Plaza de Mayo.
Nel 1980, durante un viaggio in Brasile per incontrare alcuni sopravvissuti ai centri di detenzione in esilio, la Carlotto parlò con Alcira Rios, un avvocato, e suo marito Luis Cordoba, due dei cinque prigionieri che sono usciti vivi da La Cacha. Nel lager di Rio de la Plata, Alcira, che era stata tenuta incatenata al muro di una una caverna per cinque mesi, aveva conosciuto Laura. Le raccontò che in seguito alle torture suo marito fu colpito da una seria infezione e Laura lo aveva assistito usando la sua influenza con le guardie per procurare gli antibiotici. A La Chacha, in maggio, Laura Carlotto dette alla luce un bimbo maschio e lo chiamò Guido, come il suo nonno materno originario di Arzignano (Vicenza). Dopo la nascita, glielo sottrassero raccontandole che sarebbe stato portato alla nonna Estela. Ad agosto 1978 le fu detto che sarebbe stata condotta alla Esma (Escuela de Mecánica de la Armada) di Buenos Aires, dove sarebbe stata preparata per il rilascio. Presto, le dissero, sarebbe ritornata a casa da suo figlio e da sua madre. Il 24 agosto, la notte del suo “trasferimento”, le fu permesso di salutare gli altri prigionieri di La Cacha. Strisciò nella cella della Rios e le chiese qualcosa in suo ricordo. Alcira Rios aveva solo i vestiti che indossava quando era stata presa, le regalò un reggiseno di merletto nero e Laura lo indossò. Il corpo di Laura fu ritrovato dopo il pagamento di un riscatto a dicembre dello stesso anno. Era stata sepolta con indosso il reggiseno nero dell'amica.
Nel 2009, ho incontrato Estela Carlotto a Roma. Lei era ancora in cerca del nipote Guido e si trovava in Italia per promuovere il “nodo italiano” della Red por el derecho a la Identidad (Rete per il diritto all'identità) creata in Argentina nel 2003 nell'ambito della campagna realizzata dalla Conadi, la Commissione nazionale per il diritto all’identità fondata nel 1992 e presieduta da Claudia Carlotto, figlia di Estela. «C’è ancora molto da fare - raccontò -. Dobbiamo ritrovare circa 400 nipoti scomparsi. In 30 anni ne abbiamo individuati 97, è una buona cifra. Però manca ancora parecchio». Secondo le Abuelas almeno 70 figli di desaparecidos ignorando le proprie origini potrebbero vivere nel nostro Paese. In Italia la campagna per il diritto all’identità ha il sostegno dell'Ambasciata argentina che interagisce con la banca dati genetici di Buenos Aires tramite la sede di Roma e il consolato Milano. 
«Condivido con le Abuelas la “sensazione”, l'ipotesi, che alcuni figli di scomparsi vivano in Italia - osserva Carlos Cherniak, vice ambasciatore e responsabile dell'Ufficio diritti umani -. Per questo motivo nel 2011, attraverso l'ambasciata, lo Stato argentino si è assunto la responsabilità di sostenere e portare avanti la campagna per il diritto all'identità. Noi non sappiamo dove si trovano questi ragazzi, dobbiamo cercarli ovunque. È stato fondamentale l'appoggio al nostro lavoro di ricerca da parte di Cgil, Cisl, Uil, della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane e di numerose amministrazioni locali. La loro presenza sul territorio ha permesso di dare risalto all'iniziativa. Di conseguenza abbiamo ricevuto in ambasciata molte telefonate di giovani che ci chiedono informazioni sull'iter da seguire. Noi ovviamente rispettiamo il protocollo di riservatezza predisposto da Conadi. Si tratta di situazioni delicatissime e ci sono esperti che contribuiscono a creare una rete di protezione intorno a chi si sottopone al test del Dna. La possibilità di eseguirlo qui in Italia, in ambasciata o al consolato, senza senza dover tornare in Argentina è senza dubbio una semplificazione importante». I figli di desaparecidos potrebbero trovarsi in Italia confusi tra le migliaia di giovani 35-40enni emigrati in seguito alla profonda crisi economica che ha sconvolto il Paese latinoamericano nel 2001. Ma secondo Carlos Cherniak molti di loro sarebbero arrivati circa 30 anni fa dopo la fine della dittatura. 
«Tra il 1983, anno in cui fu ripristinata la democrazia, e il 1986 quando ancora non erano entrate in vigore le leggi di auto-amnistia che garantivano l'impunità ai repressori, molte delle famiglie che si erano appropriate illegalmente di questi bambini cercarono certamente rifugio con il loro bottino di guerra in un Paese “sicuro”. L'Italia per certi versi lo era molto più di altri. Bisogna considerare - prosegue Cherniak - che quella argentina fu dittatura civile-militare, avendo coinvolto imprenditori potenti multinazionali e normali cittadini che cercarono di approfittare delle loro relazioni con il potere militare per i condurre i propri affari. Dietro al lavoro dei militari c'era il potere reale, che voleva portare avanti il progetto economico del regime, e per farlo serviva una metodologia repressiva, oltre al legame con i poteri economico-finanziario internazionali, alcuni dei quali occulti come ad esempio la P2. Ricordo che in questa ambasciata a Roma Licio Gelli aveva un suo ufficio e che la P2 partecipò attivamente alla pianificazione del colpo di Stato del 24 marzo 1976. Oggi sappiamo bene che la loggia di Gelli funzionava come una grande rete di potere globale con affiliati anche nella Giunta militare. Si trattava di una rete che all'occorrenza era in grado di fornire accoglienza, sicurezza, sostegno economico, per nascondere chi ha bisogno di non farsi trovare dalle istituzioni democratiche. È successo ad esempio con i nazisti in Argentina. Io credo che questa rete di potere ha funzionato anche in Italia consentendo a diverse persone contigue al regime di trovarvi riparo. Questo può spiegare in parte perché fino a oggi qui in Italia non è ancora stato trovato nessun figlio rubato. Ma un altro problema è rappresentato dalla mancata ratifica da parte dell'Italia della Convenzione internazionale contro la sparizione forzata delle persone. La “presenza” dello Stato con una legge apposita sarebbe uno strumento efficace in più da utilizzare in questa difficile ricerca». 
Un segnale importante da parte delle nostre istituzioni in termini di cooperazione con l'Argentina nel campo dei diritti umani è peraltro arrivato. «Il 23 ottobre 2014 - racconta la senatrice Pd Monica Cirinnà, componente della commissione Giustizia -, il presidente del Senato Pietro Grasso ha consegnato di persona al al ministro degli Esteri di Buenos Aires, Hector Timerman, l'ultima tranche degli archivi raccolti durante la dittatura nella sede diplomatica italiana e contenenti centinaia di casi di persone scomparse di nazionalità italiana e italo-argentina». Si tratta complessivamente di 661 fascicoli per un totale di 35 mila documenti analizzati e declassificati dalla Farnesina. «In quelle carte vi sono preziose informazioni fornite da sopravvissuti ai centri di detenzione ed altre fonti, e fitti carteggi, che potranno contribuire a ricostruire storie individuali, restituire identità a desaparecidos e figli rubati» spiega Cirinnà che negli anni duemila da consigliera comunale della giunta Veltroni ha aperto la strada a questa iniziativa contribuendo a sviluppare una stretta collaborazione tra il Comune di Roma e le Abuelas di Plaza de Mayo. 
«L'Italia - sottolinea a sua volta il ministro Cherniak - è il primo Paese europeo ad aver assunto e portato a compimento questo impegno sulla base di un accordo bilaterale tra ministeri degli Esteri. E non è solo un gesto simbolico perché oggi per noi i diritti umani sono una politica di Stato. Quelle carte possono avere un ruolo decisivo nei processi penali che si stanno svolgendo in Argentina contro i responsabili dei crimini della dittatura. Dopo la pubblicazione di “Nunca mas” nel 1984 nessuno poteva più dire di non sapere. Questo libro-inchiesta della Conadep è stato un grande strumento di conoscenza collettiva e di documentazione ai fini delle indagini e dei processi. Ma ancora oggi dopo oltre 30 anni dal ritorno alla democrazia siamo in presenza di una storia ricostruita a solo in parte. Come in un enorme puzzle molti dei pezzi possono essere collegati tra loro con le informazioni contenute negli archivi italiani ed essere portati come prove documentali o testimoniali di fronte a un giudice dai familiari di persone scomparse». 
Nel 2014 in Argentina sono stati condannati 95 genocidi, per un totale di 613 condanne dal 2006. Complessivamente si sono tenuti finora 133 processi pubblici ai responsabili diretti delle Forze Armate e dei diversi apparati di sicurezza. Da alcuni anni sono iniziate anche le indagini sui complici civili e i primi processi sono attualmente in corso. «Siamo ancora in fase di riparazione, senza sapere dove sono migliaia di desaparecidos e noi, le nonne, stiamo cercando i nostri nipoti, che oggi sono ormai adulti, sono uomini e donne» dice Estela Carlotto. «Abbiamo iniziato a lavorare anche negli asili nido perché lì ci sono i figli dei nostri nipoti. Speriamo che i piccoli, con le loro vocine, possano dire qualcosa che tocchi il cuore di quei genitori e che questi un giorno si rivolgano a noi». 

La prigione di Sepulveda 

Omar Venturelli Leonelli, nato a Capitán Pastene (Cile) il 1 febbraio 1942 e dirigente del Movimiento de Izquierda Revolucionaria, è stato uno dei sacerdoti che aveva guidato i contadini mapuches nell'occupazione delle terre regalate ai coloni europei. Per questo motivo venne sospeso a divinis dal vescovo Bernardino Piñera (zio del presidente omonimo). Diventato professore all’Università Cattolica di Temuco si sposò con Fresia Cea Villalobos. Nel 1971 nacque loro figlia Maria Paz Venturelli Cea che oggi vive a Bologna. Venturelli si consegnò il 16 settembre 1973 ai militari della caserma Tucapel in Cile. A partire dal 25 settembre risulta ufficialmente detenuto nel carcere di Temuco, entrambi i luoghi sono gli stessi in cui fu torturato lo scrittore Luis Sepulveda. Sarebbe stato visto in vita da altri prigionieri fino al 10 ottobre, data in cui si presume sia stato ucciso dalla "Carovana della morte" guidata dal generale Sergio Arellano Stark. 
Il 10 aprile 2015 Maria Paz Venturelli ha testimoniato nel processo di Roma. Ecco cosa ha raccontato dopo aver ricordato che all’epoca dei fatti aveva solo due anni e di aver ricostruito ciò che sa di suo padre e della sua scomparsa attraverso la propria famiglia e con l’aiuto di altre persone. «Mio padre e mia madre avevano dormito nella loro casa di Temuco la notte dell'11 settembre del 1973, il giorno del golpe. Si sono separati la mattina dopo quando seppero che i loro nomi figuravano tra quelli dei ricercati. Dopo la fine di Allende i militari iniziarono a pubblicare dei bandi pubblici in cui convocavano professori, intellettuali e studenti. Ufficialmente dovevano presentarsi in caserma per una “registrazione”». Venturelli e la moglie Fresia, insegnante di liceo, erano due persone attive politicamente: «Papà militava ufficialmente nei Cristiani per il socialismo. Aveva fatto l’università e poi si era trasferito in Araucania, a Victoria, come sacerdote per lavorare a fianco dei mapuche. Con la riforma agraria di Unidad Popular furono creati latifondi estesi come l'Emilia-Romagna, e i mapuche avevano dato vita all'occupazione di terre». Venturelli, prosegue la figlia, «era stato a Victoria dal 1964 al 1968 per poi essere allontanato dalla Chiesa. Scelse allora di insegnare filosofia all’università cattolica di Temuco». Maria Paz ha quindi ricostruito il clima di minacce, soprattutto da parte dei fascisti di Patria y Libertad, contro i suoi genitori. «A Temuco sono stati costretti varie volte a cambiare di casa. Ricevevano messaggi minatori, venivano seguiti, spesso sotto la loro abitazioni c’era qualche sconosciuto ad aspettarli».
Dopo questa parentesi è tornata a parlare del 12 settembre 1973 e ha ricordato come il padre Omar fosse stato convinto dal nonno, Roberto Venturelli, a presentarsi ai militari della Tucapel: «Il nonno ne aveva parlato col generale Ramirez e quello gli disse di non preoccuparsi perché si sarebbero limitati a prendere solo le generalità del figlio. Lui era un uomo di destra convinto della pericolosità del governo Allende e pensava che gli uomini di Pinochet stessero ripristinando l’ordine. Ma poi non ebbe più sue notizie. Quindi il 4 ottobre si recò al carcere di Temuco per sapere di suo figlio e si sentì rispondere che era stato “liberato” il giorno prima, il 3 ottobre». 
A questo punto Maria Paz Venturelli si è soffermata su ciò che ha testimoniato il compagno di cella di Omar, Jorge Barudi. È lui in sostanza l’ultimo ad aver visto vivo Omar Venturelli, la sera del 3 ottobre, quando i militari andarono alla cella per prelevarlo. «Gli dissero di raccogliere le sue cose perché si doveva presentare al cancello per essere “liberato”. Questo fece, e uscì salutando il compagno. Poi di lui non si è più saputo più nulla. Barudi aveva fatto un patto in cella con Omar. Entrambi erano convinti di poter morire da un momento all’altro, così erano d'accordo che se uno fosse sopravvissuto avrebbe dovuto riferire ai parenti dell’altro».
Prima di essere portato dal pm Capaldo davanti alla III Corte di appello di Roma, il caso Venturelli era già finito in un tribunale della Capitale.
Il 4 ottobre 1973 a firmare l'Orden de Libertad n. 52 con il quale si disponeva il “rilascio” del professore fu Alfonso Podlech Michaud, procuratore militare di Temuco. Meno di una settimana dopo, un giovane militante mentre veniva condotto in cella al passaggio in un corridoio sentì la voce disperata di un uomo: «Mi chiamo Omar Venturelli, fate sapere che sto morendo». Podlech in Cile ha esibito un documento che attestava la sua nomina a procuratore militare di Temuco solo nel marzo del 1974. E su questa carta in patria è stato scagionato. L'ordine 52, così come le testimonianza dei sopravvissuti - alcuni ascoltati anche a Roma dal pm Capaldo - indicherebbero invece che Podlech era alla prigione di Temuco già dalla mattina del golpe di Pinochet. Vi si sarebbe recato per imporre il rilascio dei terroristi di destra di Patria y Libertad e insediarsi nel carcere. «Era lui a dare l'ordine di torturare e spesso partecipava direttamente alle sessioni - ha raccontato Fresia Cea in una delle sue deposizioni -. Diversi testimoni dicono di averlo sentito chiamare i torturatori e, indicando i prigionieri, dire: "Ammorbiditeli un po', poi riportatemeli"». 
L'11 luglio 2011, Alfonso Podlech Michaud, che nel 2008 era stato arrestato a Madrid sulla base di un mandato di cattura internazionale emesso da Capaldo con l'accusa di strage e sequestro di persona, è stato assolto dalla I Corte d'assise di Roma, presieduta da Anna Argento, dopo cinque ore di camera di consiglio. I giudici romani hanno ritenuto che nei confronti di Podlech non era esercitabile l'azione penale per il reato di strage e hanno dichiarato prescritta l'imputazione di sequestro di persona. Prima che i giudici entrassero in camera di consiglio, Podlech aveva fatto delle dichiarazioni spontanee, proclamandosi innocente. Rivolgendosi alla Corte disse: «Ho chiesto allo Spirito Santo che v'illumini per una sentenza che mi liberi da ogni responsabilità così come è successo in Cile». L'“Inquisitore di Tamuco” è dunque miracolosamente scampato al carcere. Nell'aula bunker di Rebibbia si deve scoprire chi portò a compimento l'Orden de Libertad n. 52 che nel 1973 è costato la vita a Omar Venturelli Leonelli.

Articolo pubblicato su cronachelaiche.it
Fonte: MicroMega online 

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