La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 25 febbraio 2016

Trame di comunità

di Augusto Illuminati
Un Parlamento che in due anni ha visto 235 cambi di casacca, un governo infedele ai suoi programmi elettorali e di primarie, un Senato dove arbitri sono Razzi e Verdini legifera sui criteri di unione e fedeltà. Qualche idea sul miglior impiego delle ruspe verrebbe pure.
La tattica di Renzi è elementare: promettere solennemente una cosa, prendere tempo e poi fare l’opposto. Ricordate? L’articolo 18 non è un problema all’ordine del giorno, #enricostaisereno, ecc. La step-child adoption è imprescindibile e il governo non mette bocca su un disegno di legge di iniziativa parlamentare e poi si arriva a mettere la fiducia sull’accantonamento della medesima. Su Regeni vogliamo tutta la verità – il che vuol dire che si andrà a insabbiare, quando il crimine scivolerà via dalle prime pagine dei giornali.
Nulla di nuovo, dunque, caso mai è inedita l’insistenza sul necessario “realismo” della politica, anzi del “primato” della politica sulla tecnica e l’amministrazione – vedi la polemica contro gli eurocrati di Bruxelles e i “saggi” dei governi Monti e Letta. Il che, renzianamente, vuol dire che gli spazi politici si sono ristretti e la retorica subentra all’efficacia. Si parla di “realismo” per giustificare i compromessi subiti per necessità (non scelti per romperla o aggirarla). La politica è realismo, d’accordo, ma in senso opposto a quello inteso da Renzi, che sproloquia di realismo e invoca best practices e benchmark come altri rivestono il loro vuoto con “trame di comunità”.
Politici realisti in epoca moderna sono stati i conservatori-amministratori (a volte liquidatori) dei risultati di una rivoluzione cui avevano partecipato – Fouché, Stalin –, i gestori nazionali di rivoluzioni passive – Cavour, Lincoln, Bismarck –, tutti comunque con un progetto epocale, cui adattavano, senza scrupoli e rischiando di persona, le scelte contingenti e le giustificazioni ideologiche. Può darsi che, in epoca post-sovrana, il realismo stesso si “governamentalizzi”, cioè dissolva la progettualità in semplice adattamento e rinforzo rispetto alle dinamiche neo-liberali: in questo senso Renzi è un “effetto” (comunque interattivo) di un dispositivo già operante, così come le sue riforme costituzionali “decisioniste” sono la risultante di una tendenza di lungo periodo, secondo cui i meccanismi rappresentativi e di mediazione declinano a fronte del potere dell’esecutivo. Giso Amendola l’ha spiegato a puntino in un saggio su Euronomade ed è superfluo rilevare che il pagliaccio di Rignano non ha fatto che corredare il testo scritto dai poteri forti con qualche refuso istituzionale e slide assortite. Nello stesso solco si era mosso l’Italicum, con tutte le contraddizioni derivanti dal pasticcio fra diversi schemi e dal timore di un esplicito presidenzialismo e di una formula elettorale maggioritaria secca o a due turni. Del pari procede la dinamica parlamentare a colpi di canguri, super-canguri, maxi-emendamenti e voti di fiducia, in un guazzabuglio di vetusti regolamenti e garbugli barocchi.
Lo svuotamento dall’alto della rappresentanza, che alla base deperisce insieme alla forma-partito e all’ideologia lavorista che la permeava, viene tradotto in assetto costituzionale. Non è una svolta costituente, è anzi la dichiarazione della fine del potere costituente, è una costituzione “concessa” (octroyée) e dettata dal mercato, che pretende di autolegittimarsi come madre di tutte le riforme. Il suo momento più ovvio è l’enfasi sul pareggio di bilancio, peraltro non ignoto anche alla carta del 1948.
Ebbene, la revisione della Costituzione e delle procedure parlamentari, in quanto rispondente alla costituzione materiale, è performativa al massimo: non ha valore conservativo rispetto al passato né programmatico per il futuro, ma registra un mutamento in divenire, che non consente nostalgie keynesiane e ritorni allo stato “giusto”, alla repubblica fondata sul lavoro e alla difesa dell’antica Carta. Prima ancora della pavidità del ceto Pd di “sinistra” (quanti di loro hanno votato la legge Fornero, il Jobs Act, il Fiscal compact e il pareggio di bilancio in Costituzione?) c’è un dato oggettivo: nessuna difesa del buon Antico è possibile e il cattivo Nuovo è tutto da inventare. Sono patetici tanto i tentativi di difesa rigida della Costituzione vigente quanto l’auspicio generico di un ordine che accolga ma normalizzi il conflitto, di un cosmos che rifonda il chaos della frammentazione post-rappresentativa. A questa ri-territorializzazione opponiamo ilchaosmos deleuziano e, in termini più materiali, l’anomalia autogovernativa, il “fuori controllo” della Napoli di De Magistris. Di istituzioni del comune, livelli sopra- e sotto-nazionali di decisione, municipalismo, ecc. avremo occasione di continuare a parlare nei prossimi mesi.
E sulla “sostanza” del problema cosa diciamo? Non senza domandarci se la sostanza non sia proprio nella forma della sua gestione. Lo stralcio delle adozioni per un patto segreto fra Pd e Ncd era stato anticipato dal Foglio del 4 febbraio, quindi indipendente dalle successive sceneggiate tattiche con il M5S, e nella pratica significa delegificare il meccanismo adottivo delegandolo alle decisioni occasionali dei giudici – uno spostamento dalla regolamentazione universale di giustizia alla più elastica equità degli interpreti della legge, cosa che al limite potrebbe risultare migliore di un compromesso fra componenti parlamentari arretrate rispetto alla società civile. Le sorti della legge 40 insegnano e in generale mi confermano nella personale convinzione che in certe materie un eccesso di legiferazione è controproducente. I motivi, però, per cui Renzi ha rinunciato alla step-child adoption non sono certo questi, è bassa cucina trasformista nel quadro di uno svilimento delle istituzioni e delle procedure amministrative o meglio di un’accelerazione dall’alto di fenomeni di degrado già strutturalmente in corso, come si è detto. Best practices, gente…
Molto più significativi e gravidi di conseguenze sono invece i ritocchi introdotti per attenuare l’equiparazione fra unioni civili e matrimoni – punti a valenza giuridica e patrimoniale che richiedono una definizione legislativa e che i cambiamenti apportati nel maxi-emendamento rischiano di complicare e mettere a rischio di costituzionalità. Il tocco finale grottesco è la distinzione fra matrimoni “veri” e unioni di serie B, affidata alla soppressione, per le seconde, dell’obbligo di fedeltà. Intendiamoci: l'unica fedeltà è quella al proprio desiderio. Già in una coppia la reciproca fedeltà al proprio desiderio diventa problematica, può esserci o non esserci, fluttua nel tempo, si sdoppia nell’inconscio. L'obbligo legale è ridicolo (ad impossibilia nemo tenetur) e profondamente immorale. Epiche irruzioni cinematografiche nella stanza d’albergo con strappo dell’adultero lenzuolo l’hanno immortalato negli anni '50-'60. Però, ancor più grottesco è levarlo alle unioni civili per confermarlo nel matrimonio, come se la burocrazia cerimoniale (utile per definire relazioni economiche) potesse fissare i confini di amore e desiderio. Tanto più che è irrilevante ai fini dello scioglimento dell'unione. Si è voluto leccare non tanto il culo ad Alfano quanto la coda ai gatto-dem e dare uno schiaffo a concubini e froci – per usare apertamente i termini che hanno in testa i tartufi della maggioranza sancita dal voto di fiducia. Ci riflettano i fautori della legificazione universale e dello “spirito libero”. La "sinistra" Pd può anche astenersi dal riflettere, per mancanza dell'organo preposto.

Fonte: dinamopress.it

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.