di Antonella Del Prete
Considerati dai contemporanei come discepoli di Machiavelli, l’uno per la spregiudicatezza della propria politica e l’altro per le teorie esposte nei suoi libri, il cardinale Richelieu e Gabriel Naudé sembrerebbero – a un primo sguardo – personalità segnate da un opposto destino: potentissimo primo ministro di Luigi XIII il primo, per quasi vent’anni protagonista assoluto della politica interna e estera della Francia, venne immortalato, fra l’altro, dalle pagine che Alexandre Dumas gli dedicò nei Tre Moschettieri; l’altro, invece, fu un oscuro segretario e bibliotecario di potenti, che delle fortune dei propri padroni sembrò sperimentare più le disgrazie che le glorie.
Li riportano alla attualità due preziose traduzioni curate da Alessandro Piazzi per Aragno – il Testamento politico Massime di Stato di Armand-Jean du Plessis cardinal de Richelieu (pp. 378, euro 22,00) e le Considerazioni politiche sui colpi di Stato di Gabriel Naudé (pp. 304, euro 15,00) – che dei due personaggi permettono di misurare affinità e divergenze.
La filiazione da Machiavelli (e dopo di lui, da Girolamo Cardano, Giusto Lipsio, Pierre Charron) si conferma come un importante legame tra i due testi, che mostrano come Richelieu e Naudé rientrino a pieno titolo in un movimento situato alla base della nascita dello Stato moderno: religione, morale e politica si separano e, entro certi limiti da un lato diventano autonome, dall’altro collaborano su basi diverse da quelle che avevano caratterizzato la cristianità medievale.
La virtù del politico diventa la prudenza, intesa come capacità di valutare prontamente il da farsi, cogliere le occasioni e non arretrare di fronte a iniziative che infrangono abitudini e leggi, se questo si rende necessario alla salute/salvezza dello Stato. La prudenza non ha più un nesso necessario con il bene, come voleva la filosofia scolastica, ma è una qualità operativa e strumentale, «una virtù morale e politica – scrive Naudé – che non ha altro scopo se non quello di ricercare le diverse scappatoie e i migliori e più accessibili espedienti per trattare e portare a buon fine gli affari che l’uomo si propone».
La dottrina dei colpi di Stato, tuttavia, occupa una parte ristretta di questa più ampia pratica della prudenza: tra questi, infatti, non vanno contate tutte quelle azioni che rispondono alle norme generali stabilite dai teorici della politica e dai giuristi, perché solo gli arcana imperii, ossia i segreti di Stato, possono aspirare a essere definiti tali. E un segreto non è ascrivibile a una norma generale, né è deciso da organismi composti da molti membri: «Sarebbe stato certamente curioso se Carlo IX avesse deliberato la Saint-Barhélémy con tutti i consiglieri del suo parlamento, e se Enrico III avesse deciso la morte del duca di Guisa in una seduta del suo consiglio», scrive ancora Naudé.
Nei trattati di filosofia politica bisogna dunque distinguere tre diversi tipi di oggetti: da un lato c’è la scienza della fondazione e della conservazione dello Stato, dall’altro troviamo le massime, ossia quei comportamenti che non si fondano sul diritto delle genti, naturale o civile, ma solo sulla considerazione del bene e dell’utilità pubblica. I colpi di Stato propriamente detti, infine, esulano dal diritto comune, come le massime, ma hanno in più la caratteristica di non essere una legittimazione dell’azione, bensì l’azione stessa, così rapida e inattesa che si può dire di aver visto il fulmine prima di udire il brontolio del tuono.
Le massime e i colpi di Stato quindi si distinguono non per una maggiore o minore fedeltà all’equità e alla giustizia, al bene e all’utilità pubblica, ma per la forma della loro attuazione: l’esecuzione di Louis de Luxembourg, conte di Saint-Paul sotto Luigi XI rientra nel primo gruppo, perché fu il risultato di un regolare processo; quella di Concino Concini, decisa da Luigi XIII, rientra nel secondo.
Pur potendo ascriversi allo stesso fenomeno, la diffusione del pensiero di Machiavelli, le Considérations di Naudé e il Testament di Richelieu non sono però perfettamente sovrapponibili. Il cardinale si propone infatti uno scopo diverso: vuole elargire consigli che possano applicarsi all’agire quotidiano dei sovrani, e non siano diretti esclusivamente a governare eventi per certi versi eccezionali. Non solo: il suo testo prende programmaticamente in considerazione i fondamenti e le strutture portanti dello Stato – l’esercito, le finanze, gli apparati statali, i ceti che compongono la società –, non quanto avviene in momenti particolari, ben delimitati nel tempo e nello spazio. Al centro del suo interesse sta la natura della sovranità e le condizioni del suo esercizio, non la pianificazione e la gestione dei momenti di svolta nella vita del potere.
A questa differenza, che riguarda l’oggetto del testo, se ne sovrappone un’altra di natura filosofica. L’appello a Dio e alla ragione nel Testamento non è una semplice concessione alle attese del pubblico o, peggio, un tentativo di giustificare una condotta politica che i contemporanei consideravano troppo spregiudicata. Occupandosi non di uno stato di eccezione, bensì della costituzione normale del potere sovrano, Richelieu infatti non ha bisogno di romperne la concezione tradizionale: la sovranità viene da Dio, e a Dio risponde; la ragione (non la passione, e nemmeno l’autorità) deve essere la guida dell’agire politico, perché siamo esseri razionali.
Se il cardinale non abbandona le strutture tradizionali del pensiero politico e non si avventura in una fondazione totalmente secolarizzata del potere, mostra tuttavia come queste stesse strutture possano essere modellate dall’interno per servire non più l’ideale di una christianitas in cui i sovrani si inseriscono in un complesso sistema di vassallaggio, che culmina nel predominio del potere papale, ma quello di un potere sovrano certamente non secolarizzato, ma ormai responsabile solo e unicamente nei confronti del proprio popolo. Non stupisce, per fare un esempio, che chi ha messo sotto assedio La Rochelle, per eliminare la resistenza ugonotta al re, affermi che «I Principi sono obbligati a stabilire il vero culto di Dio e a bandirne le false apparenze, che sono molto pregiudizievoli per lo Stato». È più inatteso invece il fatto che questo obbligo alla conversione sia accompagnato da un invito alla ragionevolezza, alla prudenza e alla gradualità.
L’invito spiega bene perché Richelieu, una volta piegata la ribellione ugonotta capeggiata da grandi famiglie nobiliari, non abbia avuto nulla in contrario a tollerare il culto calvinista: come se il problema autentico non fosse la difesa della vera fede, ma il rafforzamento del potere regale rispetto alle autonomie nobiliari. Non è soltanto una questione di cinico tatticismo: le scelte di Richelieu si spiegano solo tenendo a mente come la religione non sia tanto, per lui, una convinzione personale del credente, quanto un potente collante della società, e perciò rientra dunque a pieno titolo – come le finanze, gli eserciti, i ceti – tra quegli elementi che i re devono saper maneggiare saggiamente in quanto strumenti di governo.
L’universo di religioso del Testamento di Richelieu è cristiano, ma queste stesse considerazioni potrebbero essere state sottoscritte da Naudé, che usava la sua grande familiarità con i classici latini e greci per mostrare quanto la religione potesse funzionare, anzi essere indispensabile, al consolidamento del potere politico.
Fonte: il manifesto
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