di Sergio Cararo
La distanza tra gli apparati ideologici di stato (intellettuali e personalità pubbliche) e la società aumenta in modo consistente. La maggioranza della società nel nostro paese ha le idee chiare sull'Unione Europea e le ha maturate nel tempo sulla base dei processi reali – il tritacarne sociale – che l'hanno riguardata. A riferirlo è l'Eurobarometro, indicatore che periodicamente testa gli umori dell'opinione pubblica nei paesi europei. Nell'ultima rilevazione emerge che in Italia solo il 38% ritiene che il paese hanno beneficiato della sua appartenenza all'Unione Europea, mentre il 51% pensa esattamente il contrario. Un giudizio negativo sulla Ue che supera addirittura quello dei principali e storici euroscettici d'Europa: i britannici.
Questi ultimi hanno però avuto la possibilità di esprimersi su questo, decretando con il referendum sulla Brexit a giugno scorso la loro rottura con l'apparato costruito dalle classi dominanti – l'Unione Europea – sull'Europa.
Questi ultimi hanno però avuto la possibilità di esprimersi su questo, decretando con il referendum sulla Brexit a giugno scorso la loro rottura con l'apparato costruito dalle classi dominanti – l'Unione Europea – sull'Europa.
"I dati italiani sono sorprendenti" – commenta il Sole 24 Ore di oggi – Storicamente l'Italia è stata tra i paesi più europeisti del continente". Cosa è accaduto dunque per rovesciare completamente il senso comune della popolazione nel nostro paese? Noi stessi, a cavallo tra il 1999 e il 2000, conducendo l'inchiesta tra i lavoratori (i risultati sono contenuti nel libro "La coscienza di Cipputi", edizioni Mediaprint), avevamo potuto verificare sia l'europeismo maggioritario sia le prime e crescenti contraddizioni tra questo consenso quasi plebiscitario e la percezione negativa delle conseguenze del Trattato di Maastricht approvato nel 1992.
L'uso invasivo e coercitivo del vincolo esterno – "ce lo chiede l'Europa" – è servito a legittimare tutte le carognate attuate contro i lavoratori e i settori popolari del paese (sulle pensioni come sui servizi, sui salari come sulle imposte), fino a colpire anche segmenti della piccola e media impresa industriale e commerciale penalizzati dalla concentrazione/centralizzazione produttiva ed economica a livello europeo. Un combinato disposto di cui hanno beneficiato la Germania, le banche e le multinazionali ma ha devastato socialmente i paesi euromediterranei come Italia, Grecia, Spagna, Portogallo ed ha inflitto ferite sociali profonde anche in paesi come la Francia (vedi la Loi Travail).
Dopo 24 anni di massacro sociale – da quel maledetto 1992 della Legge Finanziaria di Amato – non solo il debito pubblico, agitato come una clava per misure antipopolari- è cresciuto dal 103 al 133% ma la natura antisociale e antidemocratica dei Trattati Europei è diventata sempre più chiara nella percezione e nella vita reale di milioni di persone.
Curioso ma non sorprendente è che davanti a questa presa di coscienza collettiva, gli intellettuali ed ex ministri dell'establishment europeo, abbiano preso carta e penna per stilare un appello contro il populismo che minaccia l'Europa. Tra gli italiani spiccano le firme di un uomo di governo – Sandro Gozi – e dello scrittore Saviano. "Come la Brexit, la vittoria di Trump ci ha colto di sorpresa" – scrivono nel loro appello – "eravamo convinti che un approccio ragionevole al dibattito politico avrebbe prevalso su un discorso populista". Una conferma in più della distanza abissale tra queste elìte e la società reale. Non solo. E' anche una legittimazione preventiva ed ideologica ai progetti di proiezione politico/militare dell'Unione Europea che – come abbiamo ampiamente documentato sul nostro giornale – stanno accelerando negli ultimi mesi e che troveranno definizione formale il prossimo dicembre.
La gente ha compreso nel tempo, mano a mano che la verifica su costi e benefici dell'adesione all'Unione Europea e all'euro pendeva sempre più sui primi, che le proprie condizioni di vita erano peggiorate su ogni indicatore sociale. Quando ha avuto la possibilità di esprimersi democraticamente (vedi la Brexit o la Grecia) lo ha fatto con un sonoro NO. Quando gli viene impedito (come in Italia e Spagna) lo esprime con quello che trova a disposizione (in misura assai diversa con il M5S o Podemos). In altri paesi, come la Francia, quella meglio attrezzata a capitalizzare questa rabbiosa consapevolezza è la destra della Le Pen.
E' questo, e non il "populismo", il problema su cui concentrarsi. Se i sindacati di classe e la sinistra sociale e antagonista entreranno in campo con una proposta di rottura e fuoriuscita dall'Unione Europea e dall'area euro – l'Italexit – potrebbero essere i soggetti migliori a tenere insieme la sana rabbia popolare contro l'establishment e gli obiettivi veri su cui convogliarla: il dominio delle banche e delle multinazionali rappresentato dall'Unione Europea, piuttosto che la guerra tra poveri. Sta in questo la sfida, la scommessa e la possibilità di una ipotesi come il movimento rappresentato dalla Piattaforma Sociale Eurostop. Passato il referendum del 4 dicembre – e ci auguriamo con una contundente ed esplicita vittoria del No sociale – questo percorso ha tutte le caratteristiche per diventare una opzione generale e vincente per le prospettive di cambiamento ed emancipazione progressista del nostro e degli altri paesi.
Fonte: Contropiano.org
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