di Daniela Preziosi
Quando si presenta ai giornalisti, al piano nobile di Palazzo Chigi, Matteo Renzi è visibilmente stanco, «spompo» direbbe lui. E si capisce: sta per toccare la vetta della centesima iniziativa referendaria, il contachilometri è impazzito, la giornata è stata un altro tour de force: ore 10 a Berlino con i leader europei e per l’ultima volta con Obama, ore 16 a Roma al senato con l’Area Popolare di Alfano e Lupi, ore 17 incontro con il sindaco di Chicago Rahm Emanuel. Qui, siamo alle 18 passate da un po’, è alla conferenza stampa sui mille giorni di governo. Poi andrà in tv da Lilli Gruber (Otto e mezzo su La7) e e ancora dopo in tarda serata Bari, un’iniziativa alla Fiera del Levante. Un attivismo senza pari, una resistenza fisica da fare invidia.
Epperò niente, i sondaggi sono inclementi. Il premier ha 15 giorni per cambiarli. Ma ci crede ancora? Nella sala si accendono quattro slide con i risultati dei mille giorni di governo («mille, come Craxi e come Berlusconi», dice). Piccoli numeri, dal primo trimestre 2014 a terzo trimestre 2016. Che «i gufi» contestano uno a uno: Pil: +1,6%. Rapporto deficit/pil: -0,4. Debito pubblico: -43 miliardi . Consumi: +3%. Occupati: +656mila. Tasso disoccupazione: -1,1%. Tasso disoccupazione giovanile: -5,9%. Produzione industriale: +2,3%. Export: +7,4%. Ma se questi risultati fossero davvero un successo, perché il No è (sarebbe) sopra di 7 punti?
Nella sala Renzi ritrova le bandiere europee, sbianchettate per strizzare l’occhio agli euroscettici. Più tardi si giustificherà: «Ho voluto fare appello all’identità nazionale. Ora torna la bandiera, ma questa Europa deve cambiare». La verità è che è indeciso su come dare la caccia agli indecisi. Invita i cronisti a fargli le domande, ne arrivano poche. Del resto lui ha fretta e deve riservarsi qualche buona battuta per la tv. Così la conferenza stampa sbiadisce. In piedi c’è un premier che per la prima volta non sa che pesci pigliare. Nel dubbio li piglia tutti: « Il mio compito non è giocare la carta della paura», spiega, ma poi ci ripensa: «Se vince il Sì sale il Pil, se vince il No sale lo spread». Vorrebbe essere buonista e rassicurante, e così si dice fiero delle sue leggi «dell’anima sociale», quelle «da boy scout». E conciliante: «Vedo un popolo che ha voglia di cambiare ma lasceremo che la democrazia possa parlare». Poi però, come in un noto cartone per bambini, la sua anima sociale viene travolta da quella sfottente: «Se vince il no il vicequestore del senato si terrà il suo stipendio».
Errori compiuti? Ammette: «Mettendo tre miliardi nella scuola come abbiamo fatto a far arrabbiare tutti? Ci vuole del talento». Ma ha ancora un po’ di ottimismo in serbo per gli ultimi quindici giorni della campagna referendaria: «Ci saranno 25, 30 milioni di persone che andranno a votare e dovranno dire se vogliono un’Italia che cambia», cosa che lui avverte «forte» «quando giro per il Paese, e un pochino abbiamo girato». Anche più di un pochino.
E se davvero vincesse il No che farebbe? Al premier sgorga una risposta da prima repubblica: «Verificheremo la situazione politica». In mattinata il ministro Franceschini, uno che quanto a cambi di governo ha un certo know how, in mattinata gli ha dato un consiglio: se perde il Sì meglio «arrivare a fine legislatura, con fatica e mandando giù un po’ di amaro».
Nel pomeriggio Renzi era stato al seminario di Alfano. Che un seminario precisamente non è, piuttosto una riunione motivazionale per gente abituata a fiutare in anticipo l’aria, alla ricerca di nuove certezze. Il titolo è di quelli a sprezzo del ridicolo: «Di riforme si mangia». Lì il premier è davvero a casa e si consente qualche libertà: «Non dobbiamo evocare le cavallette ma raccontare che se vince il No, vince il mai», «Si deve dire si o no a questa riforma no alle balle che dicono su questa riforma». Rievoca il magheggio con cui è arrivato a Palazzo Chigi: «Ricordo conversazioni in cui Alfano era convinto che io volevo andare subito alle elezioni, Lupi lo pensava un giorno sì e uno no. Ma in più di una discussione io spiegavo che dovevamo andare avanti con Letta e tutti mi ridevano in faccia, anche Angelino e Lupi. Allo ’stai sereno’ io ero convinto…su quella storia non riusciremo a convincerli ma prima o poi lo faremo nei dettagli, abbiamo prove provate che vi stupiranno».
Sarebbe un effetto collaterale della sconfitta, nel caso, tornare sui giorni di quel febbraio 2014 in cui Renzi salì a Palazzo dopo aver giurato che mai l’avrebbe fatto senza passare per il voto. La prima delle tante promesse che si sarebbe rimangiato.
Per il futuro oggi giura che «non farà inciuci». Ma stiano tutti sereni, se dopo il 4 dicembre farà un passo indietro è solo per farne poi due avanti: «Nel Pd, che vinca il Sì o il No, partirà la fase congressuale e ci sarà spazio per tutti».
Fonte: Il manifesto
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