di Marta Fana
Gli ultimi dati sull’occupazione pubblicati nei giorni scorsi dall’Istat continuano a mostrare una debole ripresa del mercato del lavoro ad agosto. Gli occupati, rispetto al mese di luglio aumentano di 69 mila unità, mentre diminuiscono i disoccupati di 11 mila.
Nel confronto più ampio in termini temporali, si nota che rispetto a un anno fa ci sono 325 mila occupati in più, di cui il 99,9% sono lavoratori dipendenti, mentre la restante parte riguarda gli indipendenti. C’è chi, come il presidente del consiglio Matteo Renzi, ha voluto tempestivamente attribuire questo aumento al Jobs Act, nonostante l’evidente scollamento tra la realtà e i fatti. Come sappiamo il Jobs Act, al netto della riforma Poletti approvata nel maggio scorso, entra in vigore solo a marzo di quest’anno, preceduta dall’introduzione degli sgravi contributivi sul costo del lavoro a gennaio. Ciò implica che, dei nuovi 188 mila lavoratori a tempo indeterminato in più in un anno, i 76 mila assunti tra agosto e fine dicembre 2014, cioè il 40% del totale, non riguardano in alcun modo le riforme del governo. Inoltre, a guardare i dati da gennaio 2015, il contributo dei lavoratori a tempo “indeterminato” all’aumento dell’occupazione si ferma al 42%, mentre quello degli occupati a termine è del 58%.
In termini percentuali, queste variazioni si traducono in un aumento dell’occupazione a termine del 6,79% e dello 0,77% per quella “permanente” nei primi otto mesi del 2015. Se in termini anagrafici vince la Riforma Fornero, sul tipo di contratto potremmo dire che il decreto Poletti supera in efficacia le tutele crescenti e gli sgravi. Ma la questione è più complessa.
Innanzitutto, è un dato ineludibile che la ripresa dell’occupazione è il risultato di un fenomeno di ciclo economico, che investe, come mostra l’Eurostat, quasi tutti i paesi dell’eurozona.
Gli entusiasmi e i proclami del governo servono solo a giustificare la spesa sostenuta per gli incentivi alle imprese sul costo del lavoro, che di fronte ai dati europei appare se non superflua, al limite dell’accettabile. In Italia, per guadagnare qualche irrisorio decimale sul tasso di occupazione si mettono a bilancio 15 miliardi di euro nel triennio, pagati con tagli trasversali della spesa per i diritti essenziali, come la disabilità, scuola e la sanità.
Nonostante gli sgravi, il tasso di creazione di posti di lavoro da parte delle imprese rimane ben al di sotto della media europea, rispettivamente 0,7 contro 1,7. Un’ulteriore conferma delle caratteristiche di questa ripresa dell’occupazione, che si sostanzia in termini di ore lavorate dal calo della cassa integrazione e non di un’espansione vera e propria dei settori produttivi. A riguardo, ricorda l’Istat, il tasso di investimento delle imprese italiane rimane stabile a un esiguo 19% del valore aggiunto, in aumento di appena lo 0,1% rispetto a un anno fa.
Tornando ai dati sull’occupazione, sarebbe opportuno soffermarsi sulla notevole espansione degli occupati a tempo “indeterminato” che viene dai contratti di somministrazione, cioè quei contratti avviati tra agenzie interinali e lavoratori, che svolgono le prestazioni lavorative presso le aziende oppure basterebbe guardare ai dati sui voucher per rendersi conto che forse il nostro mercato del lavoro non gode di ottima salute. Un dato che il governo tende a disconoscere, nonostante i solleciti del presidente dell’Inps Boeri di fronte a un aumento nella vendita dei buoni lavoro del 73% nei primi 7 mesi del 2015 rispetto a un anno fa.
Appare chiaro quanto allarmante che l’esplosione dei voucher sia accompagnata da uno stravolgimento della loro stessa funzione: nati per regolare rapporti di lavoro occasionali, sembrano essere oggi utilizzati per lavori veri e propri che nulla hanno a che vedere con l’occasionalità delle prestazioni.
Proprio il Jobs Act ha ulteriormente liberalizzato l’istituto dei voucher aumentando i massimali di reddito percepibili tramite buoni lavoro, di conseguenza, quando si parla di valutazione della riforma del lavoro bisognerebbe tenere dentro tutti i pezzi che la compongono non soltanto quelli che fanno comodo alla propaganda di governo, nonostante venga costantemente smentita.
Fonte: il manifesto
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