di Alessandro Santagata
Per un’istituzione che considera la propria tradizione come il fondamento della missione evangelica la storia ha un valore del tutto particolare. Anche di fronte a una questione di scottante attualità, come quella dell’ammissione ai sacramenti dei risposati (civilmente), il Magistero è chiamato a confrontarsi con l’insegnamento dei padri della Chiesa, oltre che, ovviamente, con quanto stabilito dai papi e dai concili. Può succedere quindi che un dotto libro di storia del rettore dell’Abbazia dei genovesi a Roma, Giovanni Cereti, (Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva) diventi il punto di riferimento di coloro che intendono aggiornare la linea della Chiesa.
A questo studio, pubblicato nel 1977 e recentemente riedito in vista del Sinodo sulla famiglia, aveva fatto riferimento il card. Kasper nella sua relazione di apertura del Concistoro del febbraio 2014 e sembra acclarato che anche il papa lo abbia apprezzato. Lo scontro tra Kasper e il card. Walter Brandmüller ha segnato l’infiammata discussione pre-sinodale fino alla recente pubblicazione di una sorta di manifesto conservatore a firma di ben 11 cardinali (Matrimonio e famiglia. Prospettive pastorali).
Il nodo dei divorziati risposati è diventato così il punto centrale di una contrapposizione che chiama oggi il Sinodo a prendere una decisione non solamente molto attesa, ma anche decisiva nella definizione dei rapporti di forza interni alla Chiesa. In campo, come si è detto, c’è anche l’interpretazione della dottrina nella storia e su questo fronte le tesi di Cereti scuotono l’impianto dominante. In sintesi, il sostegno del teologo genovese alla riammissione alla comunione dei divorziati risposati poggia sull’analisi del Canone 8 del Concilio di Nicea del 325 dc. L’assemblea — spiega Cereti — impose agli eretici novaziani che intendevano rientrare in comunione l’obbligo di accettare i punti dottrinali della Chiesa e quindi di essere in comunione con i digami: non i vedovi risposati, come si riteneva nell’interpretazione medievale, ma, in un’epoca in cui i matrimoni erano celebrati solo civilmente e i divorzi molti diffusi, i divorziati risposati (una volta riconciliati). Cereti spiega che — in sintonia con una tradizione che prevedeva la conciliazione anche per i peccati più gravi attraverso la penitenza pubblica — Nicea confermava in maniera solenne il potere della Chiesa di Cristo di assolvere ogni peccato, ivi compreso quello di adulterio. La conseguenza era che si dovessero accettare con amore quei fedeli che si ponevano il problema «di vivere bene e fedelmente nella seconda unione». La medesima questione che i padri sinodali sono chiamati ad affrontare dopo che dal secondo Millennio le interpretazioni rigoriste che conosciamo oggi sono diventate dominanti nella Chiesa.
Scrive Cereti su Confronti del settembre 2014: «Sul piano dogmatico si può dire che l’insegnamento del canone 8 sembra pienamente valido anche oggi e il Sinodo potrebbe fare proprio questo insegnamento, superando l’errore di tanti moderni novaziani che non vogliono riconoscere alla Chiesa il suo potere». A suo parere, «soltanto una prassi di misericordia potrà far tornare molte persone a desiderare una celebrazione religiosa delle proprie nozze facendo risplendere il valore di quell’unione».
A chi osserva la Chiesa dall’esterno non sfugge come su tale questione si giochi una partita decisiva per papa Francesco e il suo disegno di riconnessione della Chiesa alla società del tempo presente, un disegno di riforma, come sempre nella storia ecclesiastica, animato dal desiderio del ritorno alla purezza delle origini.
Fonte: il manifesto
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