di Andrea Fabozzi
Una sanzione lieve, mediazione tra la gravità degli atti denunciati e l’impossibilità di rintracciare la prova evidente nei filmati di palazzo Madama. I senatori Barani e D’Anna, fedeli a Verdini e recentemente acquisiti alla maggioranza che sta riscrivendo la Costituzione, sono stati sospesi dal consiglio di presidenza per cinque giorni; ne rischiavano dieci. Sono entrambi accusati di aver insultato le senatrici del movimento 5 Stelle con gesti volgari in pieno dibattito costituente. Nessuno dei due nega, ma spiegano così: Barani intendeva invitare a ingoiare il regolamento, D’Anna (catturato in foto) indicandosi le mutante stava imitando un gesto visto tra i banchi grillini. La mediazione comprende un’interdizione di un solo giorno al senatore M5S Airola, particolarmente agitato.
Nella decisione dell’ufficio di presidenza si parla genericamente di «volgarità di alcuni gesti e di alcune espressioni al di fuori di ogni regola di civiltà» che hanno «offeso le istituzioni, le donne e gli uomini, dentro e fuori dal senato». Le sanzioni sono immediate, dunque alla maggioranza sono sfilati due voti che però torneranno per le votazioni decisive della prossima settimana.
Il Pd, in imbarazzo per i nuovi alleati, nega di aver chiesto che le sanzioni slittassero alla fine delle votazioni sulle riforme. Ma tenta di annegare i gestacci nella generica indisciplina d’aula, che imputa alla gestione del presidente Grasso. Il quale esce dalla lunga riunione della presidenza — che brucia un paio di ore del dibattito sulle riforme — promettendo che «da questo momento non sarà consentita alcuna deroga ai principi di correttezza dovuti al senato». Ma poco dopo si ritorna al punto di partenza.
Il Pd, in imbarazzo per i nuovi alleati, nega di aver chiesto che le sanzioni slittassero alla fine delle votazioni sulle riforme. Ma tenta di annegare i gestacci nella generica indisciplina d’aula, che imputa alla gestione del presidente Grasso. Il quale esce dalla lunga riunione della presidenza — che brucia un paio di ore del dibattito sulle riforme — promettendo che «da questo momento non sarà consentita alcuna deroga ai principi di correttezza dovuti al senato». Ma poco dopo si ritorna al punto di partenza.
Grasso deve gestire le migliaia di emendamenti residui all’articolo 6 del disegno di legge Renzi-Boschi, dal quale si riparte. Chiede ai senatori di seguire un po’ sui fascicoli di carta, un po’ sul sito del senato. La confusione è massima, i tempi delle opposizioni — a tutto il dibattito ricostituente sono state assegnate 80 ore, per chiudere come vuole il governo entro il 13 ottobre — si stanno già esaurendo. Nessuna votazione rappresenta un problema per la maggioranza ormai allargata. Sui tabellone dell’aula i punti rossi, quelli che segnalano i voti contrari a tutti gli emendamenti, hanno ormai conquistato l’intero emiciclo, dalla sinistra del Pd all’estrema destra di Verdini. Che paga un solo prezzo per il suo abbraccio a Renzi: è costretto a stare in aula a votare. Lui che fino a ieri era il vice principe degli assenteisti, secondo solo a Ghedini con l’88,59% di sedute mancate (Openpolis), resta impalato al suo banco scrivendo biglietti, trafficando con il telefonino, ricevendo senatori in udienza. Ma non perde un voto.
Lega e 5 Stelle nel frattempo tentano l’impossibile con l’ostruzionismo. Calderoli, che si atteggia a grande esperto dei regolamenti ma ha troppo annunciato il suo colpo a sorpresa, ci prova col «gambero», che ha immaginato come antidoto al «canguro». Chiede di degradare ogni suo emendamento a ordine del giorno, in questo caso bisognerebbe votarli tutti senza possibilità di saltarli di un balzo. Ma Grasso dopo il secondo si oppone: ha studiato il regolamento e ha trovato che per trasformare un emendamento serve il «consenso del presidente». E pazienza se fin’ora era stato sempre consentito: anche la prassi quando serve (alla maggioranza) si può innovare. Se Calderoli ritira un emendamento che, una volta bocciato, farebbe cadere qualche centinaia dei successivi, allora ecco che il senatore Tonini del Pd lo fa suo, chiedendo però di bocciarlo, così da salvare l’effetto «canguro». Altro tentativo: la Lega chiede di votare per parti separate un emendamento, la maggioranza boccia la proposta. Allora la Lega è convinta di aver fatto centro: in questo modo Grasso non potrà mettere ai voti solo la prima parte di un emendamento, per ottenere l’effetto «canguro» su tutti i successivi. Ma Grasso lo fa lo stesso, e quando i leghisti si mettono a urlare manda i senatori questori. Qualche spintone, ma finisce lì.
Finisce che l’unica opposizione visibile è quella ostruzionistica, quando restano aperte almeno tre grandi questioni. Soprattutto il problema della norma transitoria, che com’è scritta adesso rimanda l’elezione «quasi diretta» dei nuovi senatori, attraverso l’indicazione dei cittadini, almeno al 2020. E poi c’è da definire meglio i quorum per l’elezione del presidente della Repubblica. E infine bisogna mettere mano al complicatissimo iter di formazione delle leggi, che al momento non esclude l’ipotesi di uno stallo se non c’è accordo tra i presidenti dei due rami del parlamento. Non se ne parla, perché Grasso non ha deciso fino a che punto si potranno emendare di quelli articoli. Esattamente come sull’articolo 2, il presidente aspetta che arrivi un accordo nel Pd, e tra Renzi e i nuovi alleati, per poter procedere senza timori. Nel frattempo bastona l’opposizione.
Fonte: il manifesto
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