La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 6 ottobre 2015

Senato: villani avvertiti, oppositori colpiti

di Andrea Fabozzi
Una san­zione lieve, media­zione tra la gra­vità degli atti denun­ciati e l’impossibilità di rin­trac­ciare la prova evi­dente nei fil­mati di palazzo Madama. I sena­tori Barani e D’Anna, fedeli a Ver­dini e recen­te­mente acqui­siti alla mag­gio­ranza che sta riscri­vendo la Costi­tu­zione, sono stati sospesi dal con­si­glio di pre­si­denza per cin­que giorni; ne rischia­vano dieci. Sono entrambi accu­sati di aver insul­tato le sena­trici del movi­mento 5 Stelle con gesti vol­gari in pieno dibat­tito costi­tuente. Nes­suno dei due nega, ma spie­gano così: Barani inten­deva invi­tare a ingo­iare il rego­la­mento, D’Anna (cat­tu­rato in foto) indi­can­dosi le mutante stava imi­tando un gesto visto tra i ban­chi gril­lini. La media­zione com­prende un’interdizione di un solo giorno al sena­tore M5S Airola, par­ti­co­lar­mente agi­tato.
Nella deci­sione dell’ufficio di pre­si­denza si parla gene­ri­ca­mente di «vol­ga­rità di alcuni gesti e di alcune espres­sioni al di fuori di ogni regola di civiltà» che hanno «offeso le isti­tu­zioni, le donne e gli uomini, den­tro e fuori dal senato». Le san­zioni sono imme­diate, dun­que alla mag­gio­ranza sono sfi­lati due voti che però tor­ne­ranno per le vota­zioni deci­sive della pros­sima set­ti­mana.
Il Pd, in imba­razzo per i nuovi alleati, nega di aver chie­sto che le san­zioni slit­tas­sero alla fine delle vota­zioni sulle riforme. Ma tenta di anne­gare i gestacci nella gene­rica indi­sci­plina d’aula, che imputa alla gestione del pre­si­dente Grasso. Il quale esce dalla lunga riu­nione della pre­si­denza — che bru­cia un paio di ore del dibat­tito sulle riforme — pro­met­tendo che «da que­sto momento non sarà con­sen­tita alcuna deroga ai prin­cipi di cor­ret­tezza dovuti al senato». Ma poco dopo si ritorna al punto di partenza.
Grasso deve gestire le migliaia di emen­da­menti resi­dui all’articolo 6 del dise­gno di legge Renzi-Boschi, dal quale si riparte. Chiede ai sena­tori di seguire un po’ sui fasci­coli di carta, un po’ sul sito del senato. La con­fu­sione è mas­sima, i tempi delle oppo­si­zioni — a tutto il dibat­tito rico­sti­tuente sono state asse­gnate 80 ore, per chiu­dere come vuole il governo entro il 13 otto­bre — si stanno già esau­rendo. Nes­suna vota­zione rap­pre­senta un pro­blema per la mag­gio­ranza ormai allar­gata. Sui tabel­lone dell’aula i punti rossi, quelli che segna­lano i voti con­trari a tutti gli emen­da­menti, hanno ormai con­qui­stato l’intero emi­ci­clo, dalla sini­stra del Pd all’estrema destra di Ver­dini. Che paga un solo prezzo per il suo abbrac­cio a Renzi: è costretto a stare in aula a votare. Lui che fino a ieri era il vice prin­cipe degli assen­tei­sti, secondo solo a Ghe­dini con l’88,59% di sedute man­cate (Open­po­lis), resta impa­lato al suo banco scri­vendo biglietti, traf­fi­cando con il tele­fo­nino, rice­vendo sena­tori in udienza. Ma non perde un voto.
Lega e 5 Stelle nel frat­tempo ten­tano l’impossibile con l’ostruzionismo. Cal­de­roli, che si atteg­gia a grande esperto dei rego­la­menti ma ha troppo annun­ciato il suo colpo a sor­presa, ci prova col «gam­bero», che ha imma­gi­nato come anti­doto al «can­guro». Chiede di degra­dare ogni suo emen­da­mento a ordine del giorno, in que­sto caso biso­gne­rebbe votarli tutti senza pos­si­bi­lità di sal­tarli di un balzo. Ma Grasso dopo il secondo si oppone: ha stu­diato il rego­la­mento e ha tro­vato che per tra­sfor­mare un emen­da­mento serve il «con­senso del pre­si­dente». E pazienza se fin’ora era stato sem­pre con­sen­tito: anche la prassi quando serve (alla mag­gio­ranza) si può inno­vare. Se Cal­de­roli ritira un emen­da­mento che, una volta boc­ciato, farebbe cadere qual­che cen­ti­naia dei suc­ces­sivi, allora ecco che il sena­tore Tonini del Pd lo fa suo, chie­dendo però di boc­ciarlo, così da sal­vare l’effetto «can­guro». Altro ten­ta­tivo: la Lega chiede di votare per parti sepa­rate un emen­da­mento, la mag­gio­ranza boc­cia la pro­po­sta. Allora la Lega è con­vinta di aver fatto cen­tro: in que­sto modo Grasso non potrà met­tere ai voti solo la prima parte di un emen­da­mento, per otte­nere l’effetto «can­guro» su tutti i suc­ces­sivi. Ma Grasso lo fa lo stesso, e quando i leghi­sti si met­tono a urlare manda i sena­tori que­stori. Qual­che spin­tone, ma fini­sce lì.
Fini­sce che l’unica oppo­si­zione visi­bile è quella ostru­zio­ni­stica, quando restano aperte almeno tre grandi que­stioni. Soprat­tutto il pro­blema della norma tran­si­to­ria, che com’è scritta adesso rimanda l’elezione «quasi diretta» dei nuovi sena­tori, attra­verso l’indicazione dei cit­ta­dini, almeno al 2020. E poi c’è da defi­nire meglio i quo­rum per l’elezione del pre­si­dente della Repub­blica. E infine biso­gna met­tere mano al com­pli­ca­tis­simo iter di for­ma­zione delle leggi, che al momento non esclude l’ipotesi di uno stallo se non c’è accordo tra i pre­si­denti dei due rami del par­la­mento. Non se ne parla, per­ché Grasso non ha deciso fino a che punto si potranno emen­dare di quelli arti­coli. Esat­ta­mente come sull’articolo 2, il pre­si­dente aspetta che arrivi un accordo nel Pd, e tra Renzi e i nuovi alleati, per poter pro­ce­dere senza timori. Nel frat­tempo bastona l’opposizione.

Fonte: il manifesto 

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