di Domenico Tambasco
Mentre in Italia si porta a completamento l’approvazione dei decreti attuativi del Jobs Act, in Svezia l’amministrazione comunale di Goteborg ha deciso di tagliare l’orario d’ufficio dei suoi dipendenti (mantenendo inalterata la retribuzione), portando così la settimana lavorativa a 30 ore, ovverosia a 6 ore giornaliere di lavoro per cinque giorni alla settimana.
Qual è la motivazione? Semplice: gli impiegati sono piu’ felici, si ammalano di meno, hanno meno avvicendamenti, sono piu’ motivati e, di riflesso, sono anche piu’ produttivi.
Proprio il contrario di quanto sta avvenendo in Italia: riassumiamo le precedenti puntate, per chi se le fosse perse.
Due sono i picchetti piantati dal Jobs Act nell’arido terreno del mercato del lavoro italiano:
- la flessibilità in uscita, attraverso la liberalizzazione dei contratti a tempo determinato (stipulabili senza piu’ nessuna causale e fino ad un massimo di 3 anni) e l’introduzione dei “contratti a tutele crescenti” a tempo indeterminato (con l’abolizione di fatto della reintegra sul posto di lavoro ed un indennizzo per il licenziamento illegittimo che è tanto piu’ basso quanto piu’ è breve il rapporto di lavoro);
- la flessibilità nel corso del rapporto di lavoro, attraverso la possibilità per il datore di lavoro di demansionare unilateralmente il dipendente, svilendone la professionalità ad libitum;
Duplice è anche il messaggio che il legislatore lancia alla classe imprenditoriale italiana:
- è piu’ conveniente mantenere nel proprio assetto organizzativo piu’ lavoratori per brevi periodi, che meno lavoratori per periodi piu’ lunghi. Il ricambio, l’avvicendamento continuo della forza lavoro è un elemento virtuoso, e come tale viene incentivato da costi di terminazione (ovvero di cessazione del rapporto) molto piu’ ridotti.
- le esigenze organizzative dell’azienda prevalgono sulla professionalità del lavoratore che, in caso di conflitto, soccombe con il beneplacito della legge (è il nuovo art. 2013 c.c.).
Evidenti anche gli obbiettivi della “riforma”, connessi alla durata della legislatura:
- diminuzione nel breve periodo del tasso di disoccupazione, derivante dall’aumento degli avvicendamenti lavorativi;
- diminuzione del costo del lavoro, generato dalla perdita di potere contrattuale dei lavoratori e dalla riduzione dei costi di cessazione dei rapporti stessi (oltre che dalla generosa politica di sgravi contributivi per i nuovi assunti);
Siamo all’apoteosi del “modello Foxconn”, tutto improntato sulla “quantità” del lavoro e, di riflesso, sulla riduzione dei costi e dei prezzi: è la strada della competitività in salsa italo-cinese.
L’esperienza svedese, tuttavia, ci porta a volgere lo sguardo verso un modello totalmente diverso, fondato sulla “qualità del lavoro” e sulla “produttività”.
Una forza lavoro davvero produttiva, infatti, necessita di rapporti lavorativi stabili, che non durino lo spazio di qualche settimana o mese ma che, al contrario, permettano alla professionalità di affinarsi nella pratica quotidiana (il tradizionale valore dell’esperienza, che “i moderni” definiscono learning by doing).
La professionalità, questa sconosciuta: un lavoratore produttivo, infatti, è un lavoratore che vede la propria competenza gratificata con adeguate retribuzioni (la teoria dei salari di efficienza è lì ad insegnarcelo) ed incentivata nella crescita del proprio bagaglio di conoscenze professionali.
Stabilità, professionalità, retribuzioni elevate: pilastri portanti del ponte che collega il lavoro al benessere individuale e alla produttività generale. E, potremmo aggiungere, anche all’innovazione.
Due filosofie opposte, quantità e qualità del lavoro.
Due mondi agli antipodi, Italia e Svezia.
Fonte: MicroMega online - blog dell'autore
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