di Alessandro Visalli
Il nuovo membro della squadra di consulenti di Jeremy Corbyn, Mariana Mazzuccato su Project Syndacate (qui da social europe) ha scritto un breve articolo nel quale individua gli elementi a suo parere essenziali di un programma progressista per questa fase storica. La prima cosa da considerare, per l’economista inglese è che la ricchezza è una creazione collettiva.
Può sembrare, ed è, una considerazione ovvia, ma quando il Labour ha perso le elezioni molti l’hanno rimproverato di non aver sufficientemente sposato le ragioni dei “creatori di ricchezza”. Intendendo con ciò le imprese private.
È vero, dice la Mazzuccato, che le imprese creano ricchezza, ma altrettanto fanno i lavoratori e anche le istituzioni pubbliche, come le organizzazioni civili. A creare ricchezza è la “partnership dinamica” tra tutti questi attori che orienta nel lungo termine la produttività e la crescita.
Da qui deve partire una agenda progressista: la creazione di ricchezza è un processo intrinsecamente collettivo (cit questo articolo) ed interattivo.
Io la direi diversamente: sono i lavoratori (tutti) che creano la ricchezza, e lo fanno solo perché e nella misura in cui cooperano. Questa essenziale facoltà umana è resa da alcune tecnologie sociali che chiamiamo “imprese”, oppure “organizzazioni civili” e dalle più importanti di tutte, le “istituzioni pubbliche” (formali o di fatto). Ed ovviamente dalle infrastrutture “morte”, materiali ed immateriali, che rendono efficace questa cooperazione.
Allora la dicotomia tra governi e mercati è la prima falsa leggenda che una politica progressista deve eliminare. Invece di attardarsi a immaginare un mai esistito gioco a somma zero tra il governo ed i mercati è necessario cominciare a pensare più chiaramente (ed esplicitamente) a quale risultato vogliamo dai mercati. Questa formulazione della Mazzuccato contiene una rottura forte con lo spirito hayekiano che anima molti dei nostri dibattiti.
Dunque, è il primo punto, invece di concentrarsi solo sulla “facilitazione” o l’”incentivazione” neutra del business, senza valutare o indirizzare gli output, bisogna pensare ad investimenti concentrati sumissioni. E orientare la politica a “plasmare e creare” dei mercati e non solo a correggerli quando falliscono clamorosamente (o sostenerli senza modifiche come è stato fatto durante la crisi finanziaria).
L’economista propone per questo di considerare quelle politiche neutre, oggi così lodate, come i crediti di imposta automatici e le ridotte aliquote fiscali, come un danno sul lungo periodo per la creazione di ricchezza nella misura in cui alla fine ottengono l’effetto di limitare la capacità dei governi di investire in modo mirato.
Inoltre tutto il dibattito sulla contrazione della spesa pubblica, al fine di ridurre il debito pubblico l’impronta dello stato nell’economia, dovrebbe essere superato da un dibattito sulle migliori modalità di costruzione di partenariati pubblico-privato intelligenti che siano reciprocamente vantaggiosi. Non è solo questione di investire sulla formazione, la tecnologia e la ricerca, ma di promuovere investimenti diretti e pazienti su tutta la catena dell’innovazione: la ricerca di base, quella precompetitiva e quella applicata.
Un altro punto necessario dell’agenda progressista è la de-finanziarizzazione dell’economia reale, in modo da spingere i profitti a essere reinvestiti nel potenziamento della produzione o in ricerca e sviluppo, invece che terminare in qualche alchimia finanziaria come il riacquisto di azioni. Oltre 3.000 miliardi di dollari sono stati orientati su queste operazioni di riacquisto che avvantaggiano solo programmi di stock option.
Per questo c’è bisogno di spostare a lungo termine la logica della finanza esistente, che è troppo speculativa e orientata al breve termine. Solo gadget (ad esempio un modello nuovo di I-Phone con quasi tutto del precedente) hanno vantaggi da capitali così frettolosi. Ma queste non sono vere innovazioni, è la seconda falsa leggenda. Tutte le vere rivoluzioni tecnologiche, quelle che creano valore reale, non solo sui conti in banca degli azionisti, hanno richiesto storicamente lunghi e pazienti contributi di capitale pubblico (in Cina ed in Germania garantito da banche pubbliche, in altri paesi come gli USA da enti pubblici strategici).
Terza dimensione su cui lavorare è la riqualificazione del lavoro. La riduzione del potere negoziale del lavoro, e l’orientamento finanziario delle imprese nel contesto della mondializzazione ha rotto dal 1980 (probabilmente da prima) il legame tra aumenti della produttività e incremento della quota salari nell’economia. Questo legame va ripristinato, facendo leva sui sindacati e sull’istruzione e formazione.
Quindi il sistema fiscale deve diventare più progressivo e molto più equo. E quando sostiene qualche settore (come nel caso di Tesla) perché utile ad aprire all’innovazione, il pubblico deve fare in modo di garantirsi un ritorno al momento del successo. Bisogna dunque pensare in modo più creativo.
La quinta dimensione di azione politica è sulla retorica sul debito che va radicalmente ridefinita. Invece di concentrarsi sui semplici dati contabili dei deficit di bilancio, o sul totale numerico del debito, bisogna capire che è il denominatore la variabile essenziale. Se riesco a garantire una continua crescita ed incremento di efficienza tutto sarà sempre sotto controllo.
Bisogna infine puntare sull’economia verde come nuova direzione per tutta l’economia, avviando su questo terreno dei lunghi cicli di investimento pubblico come quelli che hanno realizzato e garantito le rivoluzioni dell’’informazione e comunicazione delle biotecnologie, delle nanotecnologie.
Insomma, per Mariana Mazzuccato il partito laburista inglese deve impegnarsi per “cambiare la discussione” sulla politica economica e in questo modo “plasmare il futuro”. Le sei dimensioni indicate, e le false leggende da combattere, sono una buona base di partenza.
Fonte: Tempo fertile
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