La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 4 ottobre 2015

Riforma, passa anche l’art. 2

di Andrea Colombo
Cen­to­ses­santa voti, e in que­sto caso il pro­ver­biale “non uno di più” fa dav­vero la dif­fe­renza. L’art. 2 della riforma costi­tu­zio­nale, quello sul quale la mino­ranza Pd aveva ingag­giato il suo brac­cio di ferro, è stato appro­vato ma senza rag­giun­gere la mag­gio­ranza asso­luta di 161voti. Man­ca­vano all’appello i cin­que sena­tori Ncd. «Solo per­ché è sabato», mini­miz­zano dagli spalti del Pd. In realtà la ten­sione nel par­tito fra­nante di Alfano resta altis­sima, e a peg­gio­rare la situa­zione ci si mette la sirena Ver­dini, deciso a rim­pol­pare la sua Ala dando la cac­cia anche a chi cerca una via d’uscita dalla fossa Ncd. Tra i demo­cra­tici solo Cor­ra­dino Mineo ha votato con­tro l’ex arti­colo della discor­dia, men­tre poco prima aveva soste­nuto anche lui l’emendamento Finoc­charo, che tra­duce in norma l’accordo rag­giunto dalle due fazioni del Pd.
Si tratta di una tre­gua, non di pace. L’emendamento Finoc­chiaro cita in linea di prin­ci­pio la neces­sa­ria «con­for­mità alle scelte espresse dagli elet­tori», ma rin­via la deci­sione su come que­sta scelta dovrà essere espressa a legge suc­ces­siva.
Ma soprat­tutto la peral­tro lieve modi­fica è desti­nata a restare let­tera morta se non ver­ranno modi­fi­cate le norme tran­si­to­rie con­te­nute nell’art.39. In que­sto caso, infatti, i futuri sena­tori, fino al 2023, ver­ranno nomi­nati dai con­si­gli regio­nali alla fac­cia delle «scelte espresse dagli elettori».
La par­tita nel Pd si ria­prirà a quel punto. Il governo ha già fatto sapere di non avere alcuna inten­zione di emen­dare le norme tran­si­to­rie. Come in una ripe­ti­zione infi­nita della stessa sce­neg­giata, anche sull’art.39 il ruolo del pre­si­dente del Senato sarà fon­da­men­tale. Spet­terà a lui deci­dere se ren­derlo emen­da­bile oppure, come ha già fatto per l’art.2, blin­darlo. Visto il com­por­ta­mento oltre i limiti dell’immaginabile di Grasso negli ultimi giorni, ci vuole un otti­mi­smo a prova di bomba nucleare per spe­rare che non ese­gua anche sta­volta gli ordini del governo.
L’art. 39 non è il solo sco­glio ancora insu­pe­rato prima del tra­guardo fis­sato per il 13 otto­bre: il voto finale sulla riforma, nel quale non sarà neces­sa­ria la mag­gio­ranza asso­luta, per­ché que­sto in realtà viene spac­ciato come «secondo voto del Senato nella prima let­tura» e non come quella seconda let­tura che, a norma di Costi­tu­zione, rende obbli­ga­to­ria la mag­gio­ranza degli aventi diritto e non dei pre­senti in aula. Un primo sco­glio è rap­pre­sen­tato dalla defi­ni­zione dei grandi elet­tori che dovranno deci­dere chi abi­terà di volta in volta sul Colle. Al momento, secondo la regola sem­pre pra­ti­cata da Renzi chi vince piglia tutto: il par­tito che si aggiu­dica il pre­mio di mag­gio­ranza con l’Italicum è in grado di sce­gliersi da solo il pre­si­dente della Repub­blica. Tutte le oppo­si­zioni non­ché la mino­ranza Pd, come del resto qual­siasi logica isti­tu­zio­nale demo­cra­tica, chie­dono di modi­fi­care una simile enor­mità, e qui il governo sem­bra dispo­ni­bile a rive­dere la norma.
Altro osta­colo serio potrebbe rive­larsi l’art.10. Det­ta­glia le fun­zioni del Senato secondo Maria Elena Boschi. E qui è Cal­de­roli a minac­ciare sfra­celli: «Se entro lunedì non mi arri­vano rispo­ste pre­cise sulle fun­zione del Senato e delle Regioni e sul finan­zia­mento degli enti ter­ri­to­riali comin­cio a fare oppo­si­zione sul serio e sull’art.10 ci sono 300mila miei emen­da­menti. Pen­sano di risol­vere con la regola del can­guro, ma io gli farò sco­prire quella del gam­bero, che mi guardo bene dal dire ora come funziona».
Ulte­riore pro­blema, non in Par­la­mento ma appena fuori di lì, è il ruolo cre­scente della truppa mer­ce­na­ria rac­colta dall’intramontabile Denis. «Ver­dini non è mica il mostro di Loch Ness», dice Renzi facendo scudo all’amico di fami­glia. «Non sarà mai nel Pd», giura Boc­cia. «Non è in mag­gio­ranza», ripe­tono un po’ tutti i par­la­men­tari del Naza­reno. La realtà è che invece i ver­di­niani in mag­gio­ranza ci sono eccome, e quella è gente che non la nascondi facil­mente. Volti la testa un secondo e gli scappa il gestac­cio alla Barani (di cui si occu­perà domani l’ufficio di pre­si­denza del Senato), pare ripe­tuto anche dal col­lega D’Anna, altro gen­ti­luomo. Se impat­tano una tele­ca­mera, e negli ultimi giorni è capi­tato spesso, sem­brano uscire nep­pure dal Padrino ma da Johnny Stec­chino. Gli elet­tori potreb­bero non gradire.
Ma non c’è spina che tenga. La gioia del governo quando ieri, sia pur con risi­cato voto, è pas­sato l’articolo temuto era sin­cera. L’abbraccio di Boschi alla fedele e bene­me­rita Finoc­chiaro mostrava vero tra­sporto. Non per­ché que­sta riforma serva ma nep­pure solo per­ché com­piace il bul­li­smo del gran capo.
Il vero nodo è che la recla­mava l’Europa in cam­bio di qual­che spic­ciolo di fles­si­bi­lità in più. «Voi date un bel colpo alla demo­cra­zia, noi sgan­ciamo qual­co­sina». Non è così che si scri­vono le Costi­tu­zioni nella nuova demo­cra­zia europea?

Fonte: il manifesto 

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