di Andrea Colombo
Centosessanta voti, e in questo caso il proverbiale “non uno di più” fa davvero la differenza. L’art. 2 della riforma costituzionale, quello sul quale la minoranza Pd aveva ingaggiato il suo braccio di ferro, è stato approvato ma senza raggiungere la maggioranza assoluta di 161voti. Mancavano all’appello i cinque senatori Ncd. «Solo perché è sabato», minimizzano dagli spalti del Pd. In realtà la tensione nel partito franante di Alfano resta altissima, e a peggiorare la situazione ci si mette la sirena Verdini, deciso a rimpolpare la sua Ala dando la caccia anche a chi cerca una via d’uscita dalla fossa Ncd. Tra i democratici solo Corradino Mineo ha votato contro l’ex articolo della discordia, mentre poco prima aveva sostenuto anche lui l’emendamento Finoccharo, che traduce in norma l’accordo raggiunto dalle due fazioni del Pd.
Si tratta di una tregua, non di pace. L’emendamento Finocchiaro cita in linea di principio la necessaria «conformità alle scelte espresse dagli elettori», ma rinvia la decisione su come questa scelta dovrà essere espressa a legge successiva.
Ma soprattutto la peraltro lieve modifica è destinata a restare lettera morta se non verranno modificate le norme transitorie contenute nell’art.39. In questo caso, infatti, i futuri senatori, fino al 2023, verranno nominati dai consigli regionali alla faccia delle «scelte espresse dagli elettori».
Ma soprattutto la peraltro lieve modifica è destinata a restare lettera morta se non verranno modificate le norme transitorie contenute nell’art.39. In questo caso, infatti, i futuri senatori, fino al 2023, verranno nominati dai consigli regionali alla faccia delle «scelte espresse dagli elettori».
La partita nel Pd si riaprirà a quel punto. Il governo ha già fatto sapere di non avere alcuna intenzione di emendare le norme transitorie. Come in una ripetizione infinita della stessa sceneggiata, anche sull’art.39 il ruolo del presidente del Senato sarà fondamentale. Spetterà a lui decidere se renderlo emendabile oppure, come ha già fatto per l’art.2, blindarlo. Visto il comportamento oltre i limiti dell’immaginabile di Grasso negli ultimi giorni, ci vuole un ottimismo a prova di bomba nucleare per sperare che non esegua anche stavolta gli ordini del governo.
L’art. 39 non è il solo scoglio ancora insuperato prima del traguardo fissato per il 13 ottobre: il voto finale sulla riforma, nel quale non sarà necessaria la maggioranza assoluta, perché questo in realtà viene spacciato come «secondo voto del Senato nella prima lettura» e non come quella seconda lettura che, a norma di Costituzione, rende obbligatoria la maggioranza degli aventi diritto e non dei presenti in aula. Un primo scoglio è rappresentato dalla definizione dei grandi elettori che dovranno decidere chi abiterà di volta in volta sul Colle. Al momento, secondo la regola sempre praticata da Renzi chi vince piglia tutto: il partito che si aggiudica il premio di maggioranza con l’Italicum è in grado di scegliersi da solo il presidente della Repubblica. Tutte le opposizioni nonché la minoranza Pd, come del resto qualsiasi logica istituzionale democratica, chiedono di modificare una simile enormità, e qui il governo sembra disponibile a rivedere la norma.
Altro ostacolo serio potrebbe rivelarsi l’art.10. Dettaglia le funzioni del Senato secondo Maria Elena Boschi. E qui è Calderoli a minacciare sfracelli: «Se entro lunedì non mi arrivano risposte precise sulle funzione del Senato e delle Regioni e sul finanziamento degli enti territoriali comincio a fare opposizione sul serio e sull’art.10 ci sono 300mila miei emendamenti. Pensano di risolvere con la regola del canguro, ma io gli farò scoprire quella del gambero, che mi guardo bene dal dire ora come funziona».
Ulteriore problema, non in Parlamento ma appena fuori di lì, è il ruolo crescente della truppa mercenaria raccolta dall’intramontabile Denis. «Verdini non è mica il mostro di Loch Ness», dice Renzi facendo scudo all’amico di famiglia. «Non sarà mai nel Pd», giura Boccia. «Non è in maggioranza», ripetono un po’ tutti i parlamentari del Nazareno. La realtà è che invece i verdiniani in maggioranza ci sono eccome, e quella è gente che non la nascondi facilmente. Volti la testa un secondo e gli scappa il gestaccio alla Barani (di cui si occuperà domani l’ufficio di presidenza del Senato), pare ripetuto anche dal collega D’Anna, altro gentiluomo. Se impattano una telecamera, e negli ultimi giorni è capitato spesso, sembrano uscire neppure dal Padrino ma da Johnny Stecchino. Gli elettori potrebbero non gradire.
Ma non c’è spina che tenga. La gioia del governo quando ieri, sia pur con risicato voto, è passato l’articolo temuto era sincera. L’abbraccio di Boschi alla fedele e benemerita Finocchiaro mostrava vero trasporto. Non perché questa riforma serva ma neppure solo perché compiace il bullismo del gran capo.
Il vero nodo è che la reclamava l’Europa in cambio di qualche spicciolo di flessibilità in più. «Voi date un bel colpo alla democrazia, noi sganciamo qualcosina». Non è così che si scrivono le Costituzioni nella nuova democrazia europea?
Fonte: il manifesto
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