di Marco Cesario
Il presidente turco Erdogan ha vinto le elezioni che non ha potuto vincere cinque mesi fa e lo ha fatto grazie alle minacce e alla paura: paura di nuovi, sanguinosi, attentati ed altri morti, paura di nuovi bombardamenti nel Sud Est, sempre più massicci, paura che la manovalanza jihadista venga nuovamente sguinzagliata per fare il lavoro sporco coi curdi, paura che il Paese venga destabilizzato dalla crisi siriana e che la Repubblica di Atatürk perda fiducia nelle proprie istituzioni democratiche. Davanti al moltiplicarsi di tutte queste paure, è prassi che sia il piglio autoritario a rassicurare il popolo. In qualunque modo sia arrivata questa vittoria politica (che mira nel tempo a conquistare l’agognato presidenzialismo), è certo che l'autoritarismo paternalistico dell'Akp, il partito per la giustizia e lo sviluppo di Erdogan, riesce a rassicurare perché fa credere di riportare l'ordine ma in realtà ha fatto scivolare lentamente il Paese in uno dei periodi più bui della sua storia.
Oggi l’Akp incarna politicamente violente forze sotterranee che spingono al panturchismo oltranzista, al ritorno dell’Islam radicale, alla eliminazione della causa curda in nome del ritorno in auge dello Stato unitario e della turchità, al rigetto del multipartitismo e dell’alternanza democratica, alla soppressione delle conquiste della società civile turca, della libertà di stampa e di espressione. Persino i miti pietrificati della Repubblica laica di Atatürk, oramai chiusi nelle pagine dei libri di storia che l’Akp vuole riscrivere, non dormono più sogni tranquilli. Una nuova cricca al potere sta riscrivendo la storia della Turchia col sangue degli innocenti. Ma cio’ che accade oggi pero’ è perfettamente in linea con l’ultima storia del Paese.
Non bisogna dimenticare che nel recente passato passato in Turchia, per scongiurare il pericolo rosso, la Cia non ha lesinato a creare milizie paramilitari, formazioni fasciste ed ultranazionaliste ed “eserciti irregolari” nel Kurdistan turco pur di garantire l’esistenza dello stato unitario usando l’Islam come vessillo contro l’ateismo ed il comunismo. Soldati della Kontrgerrilla (la Gladio Turca), Lupi Grigie agenti del Mit (il servizio segreto turco), protetti dai militari e dai partiti d’estrema destra, portarono avanti una guerra contro tutti i partiti e i sindacati d’ispirazione comunista che fece almeno 5.000 vittime. La “cupola” di Ergenekon organizzò attentati contro intellettuali di sinistra, pogrom contro gli aleviti (il pogrom di Marsh, nel 1978, provoca oltre 100 morti) e mise in atto provocazioni di ogni tipo durante manifestazioni politiche per rendere la società turca ingovernabile e giustificare l’instaurazione di un governo retto da militari. Oggi lo scenario non è più lo stesso e gli attori sono cambiati ma non è cambiato il paradigma. Il nuovo motto del regime è: seminare il disordine per giustificare il ritorno forzato all’ordine.
I militari sono stati messi sapientemente da parte con una serie d’inchieste a tappeto che hanno tagliato la testa all’esercito, la polizia, prima gülenista, è stata semplicemente sradicata dopo lo scoppio della Tangentopoli turca e rimpiazzata coi fedelissimi dell’Akp, la magistratura è stata prima adoperata per eliminare i nemici politici poi resa inoffensiva o costretta a darsela a gambe per sfuggire alle persecuzioni che le si sono scatenate contro. Insomma un vero e proprio bellum omnium contra omnescon altri interpreti, ovvero la sinistra incarnata dai valori dell’Hdp, che fa i propri anche i valori della causa curda, che è stata osteggiata, bandita, massacrata. Se prima i manovali del massacro erano i Lupi Grigi e altre formazioni paramilitari come il “Jitem”, il cui scopo era assassinare ex pentiti del Pkk e organizzare la contro-guerriglia contro gli indipendentisti curdi nel Sud Est della Turchia, oggi ci sono ijihadisti di Daesh col supporto delle bombe dei caccia dell’esercito turco. Una manovalanza perfetta, perché il primo atto dei jihadisti è incendiare il passaporto e maledire gli atei guerriglieri dell’odiato Ocalan ed in questa universalità del messaggio di barbarie, portato avanti da soldatini di piombo ciechi e infarciti di teologismo politico, si dissolvono altre cause particolari, come quella curda, quella alevita ed altre istanze che aveva espresso la società di Gezi Park, andate in fumo a Suruç ed Ankara.
Si dice sempre che il grado di libertà di un Paese lo si misura con la libertà che vige tra i suoi media. In Turchia la censura è un male endemico, un cancro che ha fatto scivolare il paese sempre più in basso, alla pari di altre dittature e regimi sanguinari. L’ultimo atto in ordine di tempo è stato l’arresto di Murat Çapan, direttore della rivista Nokta, e del suo caporedattore Cevheri Güven. La pubblicazione di una copertina con la foto di Recep Tayyip Erdoğan ed il titolo: “Lunedì 2 novembre: l’inizio della guerra civile turca” non è stata apprezzata dal presidente turco, uno che si prende sul serio e che prende molto sul serio il proprio progetto per trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale (sarebbe più corretto oramai definirla regime assolutistico). Murat Çapan tra l’altro è lo stesso direttore che si è ritrovato in stato d'arresto dopo la pubblicazione in prima pagina di un numero con un fotomontaggio che raffigurava il presidente Erdoğan nell’atto di farsi un selfie davanti alla bara di un soldato turco. Erdoğan, che non ama il pluralismo dell'informazione e non ama neppure l’ironia, ha deciso di far tacere in qualunque modo il dissenso.
Per questo ha fatto licenziare pure 57 giornalisti del gruppo editoriale Koza Ipek Media, già commissariato da un tribunale. La holding Koza-Ipek è ritenuta vicina all'imam Fethullah Gülen, prima alleato, poi diventato nemico pubblico numero uno dopo lo scoppio della tangentopoli turca. Le forze dell’ordine hanno sfondato la barriera di giornalisti che difendevano la redazione con getti d’acqua e gas lacrimogeni. Più tardi, sugli schermi di Bugün TV et Kanaltürk, è apparso uno schermo nero, simbolo dello stato in cui si trova oggi la Turchia: buio pesto.
I giornali Bugün e Millet che fanno parte dello stesso gruppo di Bugün TV et Kanaltürk, hanno dovuto sospendere poco dopo la propria diffusione. Il redattore capo di Bugün, Erhan Basyurt, è stato licenziato assieme ad altri due reporter.
Insomma il presidente ha festeggiato la vittoria con una tabula rasa sui media d’opposizione, nello stile che gli è consono da più di un decennio. Il giorno prima delle elezioni la polizia turca aveva rafforzato paradossalmente anche la protezione attorno alla sede del giornale d’opposizioneCumhuriyet ad Istanbul dopo aver ricevuto informazioni di possibili minacce di attentato di jihadisti alla sede del quotidiano alla vigilia delle elezioni legislative di domenica. Curioso, prima a minacciareCumhuriyet e il suo giornalista di punta Uğur Mumcu (assassinato poi con una bomba) erano i Lupi Grigi in combutta con l’estrema destra, la mafia, i servizi segreti ed i paramilitari. Oggi c’è Daesh, il manovale della morte perfetto e multiuso, manovrato un po’ da tutti e usato come spauracchio su più fronti (Siria, Kurdistan, Egitto, Algeria e persino Francia). Di Cumhuriyet è bene ricordare il suo direttore, Can Dundar, per il quale era stata chiesta addirittura una condanna all’ergastolo semplicemente per aver pubblicato alcune foto che dimostravano il passaggio di armi dalla Turchia alla Siria, direzione Isis. Ancora una prova dei legami Daesh-governo e di tutto cio’ che questo connubio potente è capace di fare oggi nella regione.
Poco prima delle elezioni, sentendo puzza di bruciato, una cinquantina di media internazionali, tra cui ilNew York Times, la France Presse, La Stampa, la Süddeutsche Zeitung, VICE Media, il New Yorker e ilWashington Post avevano invitao una lettera al presidente turco per esprimere la propria inquietudine di fronte agli attacchi ripetuti alla libertà di stampa in Turchia. La lettera ricordava i due attacchi al quotidiano Hurriyet e l’aggressione al giornalista Ahmet Hakan Coskun, la detenzione di tre giornalisti di Vice News tra i quali Mohammed Ismael Rasool, tutt’ora in prigione. La lettera, com’è ovvio, non ha sortito alcun effeto. Ricordare serve a poco in Turchia dato che ogni segno visibile del sopruso viene prontamente cancellato e chi, come il giornalista, cerca di reperirne le tracce, viene zittito o messo in condizioni di non nuocere.
Come ha ricordato qualche giorno fa Erol Önderoglu, rappresentante di Reporters sans frontières (RSF) in Turchia, il prezzo della libertà di stampa non è mai stato cosi’ elevato: in tre mesi 49 giornalisti messi in stato di fermo, due giornalisti condannati penalmente per aver insultato il capo dello Stato, 35 inquisiti per lo stesso motivo e infine 24 giornalisti che si trovano attualmente dietro le sbarre per motivi politici. In un clima da guerra civile con attentati e bombardamenti massicci nel Sud Est, molti giornalisti vengono censurati o arrestati con l’accusa di essere membri di organizzazioni terroristiche, oppure vengono accusati di essere affiliati al Pkk o di voler rovesciare lo stato turco con l’uso delle armi. Così se ne stanno buoni a casa o in carcere, o perdono il tempo a difendersi, tra scartoffie, processi che durano in eterno e aule di tribunali con giudici molto poco solerti. Vecchie e furbesche tattiche, con l’appoggio dell’aurea legge antiterrorismo, la legge che in Turchia trasforma anche il più giusto e retto giornalista in un nemico politico da abbattere o da rinchiudere in prigione.
Fonte: Linkiesta
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