di Maysa Moroni, Andrea Natella e Giuliano Santoro
Il discorso attorno alle nostre città e la retorica che esso produce assume sempre di più caratteristiche di tipo militare. Ciò avviene dal punto di vista linguistico prima che materiale. Gli spazi pubblici sono soldati che hanno perso dei gradi (il degrado) e che devono riconquistarli con nuove decorazioni al valore (il decoro). Per farlo è necessario avere disciplina per poi vedersi riconosciuto il merito.
Ci sono nemici da sconfiggere e prove da superare. È il viaggio dell'eroe. Ed è facile identificarsi con lui semplicemente perché l'antagonista, gli antagonisti, è costituito da un complesso di segmenti marginali della popolazione o viene rappresentato tramite entità astratte di cui è difficile sentirsi parte. È un viaggio, questo dell'eroe-città in cerca del decoro, che non porta da nessuna parte. Intanto perché, come fanno spesso le ideologie reazionarie, istituisce un passato che non è mai esistito (quello in cui la città aveva i suoi gradi). E poi perché le decorazioni che auspica sono distintivi assemblati mescolando materiali eterogenei. [...]
In città si vive male. Ciò è dovuto in primo luogo alla relazione tra flussi e nodi, tra mobilità e staticità. Mentre la funzione primaria della città è cambiata incessantemente nel corso della storia (da luogo del mercato e divenuta dapprima centro amministrativo e poi campo di concentramento del lavoro industriale), la sua forma ha invece dovuto fare i conti con la solidità e la resistenza delle architetture. Le nuove tecnologie deterritorializzano sempre più la nostra esperienza quotidiana, lo spazio urbano rischia di essere percepito come un fastidioso ambiente di attrito e rallentamento. La comunicazione digitale ci porta ovunque in tempo reale e il traffico, i cortei, i venditori al semaforo ci costringono a rallentare. Vorremo fuggire altrove ma la città ci abita tanto quanto noi la abitiamo e per questo non è facile immaginare un altrove possibile.
L'unico altrove può essere solo dentro la città stessa. Da qui la ricerca di una maggiore felicità nel vivere urbano. Una ricerca che è oggetto di studio disciplinare ma ancor prima è un'esigenza dei cittadini che abitano la città. Ci si potrebbe quindi aspettare un proliferare e un confliggere di slanci utopici tesi alla trasformazione della realtà urbana a seconda delle collocazioni spaziali, funzionali, culturali ed economiche dei suoi abitanti. Invece questi segnali, almeno su ampia scala, sono assai flebili o magari esistono ma sono parte di vissuti quotidiani che e non vengono enunciati politicamente.
Il dilagare dell'ideologia del decoro - oltre che il suo presentarsi come trasversale, unanime, “né di destra né di sinistra” - è un prodotto dalla crisi economica. Diremo di più: il decoro è un modello di governance nella crisi. Le politiche di austerità si impongono sul piano materiale e su quello psicologico. Ai tagli alla spesa pubblica e ai servizi, si sommano gli effetti di un capitalismo finanziario che produce sempre più diseguaglianza sociale. La città da spazio dell'affermazione e della conquista di nuovi diritti diventa palcoscenico delle disparità. Ma vince la narrazione più semplice. Quella che si ferma alla superficie del problema e soltanto in superficie intende operare. Poiché la superficie è evidentemente sporca è necessario disinfettare, fare pulizia. Emotività, pavloviana come quella di una vecchia pubblicità “contro lo sporco impossibile”. Una più complessa analisi eziologica richiederebbe quel tempo che manca agli abitanti circolanti nelle città congestionate. Si afferma così una innovativa prospettiva che trova nella antinomia degrado-decoro, un originale punto di sintesi tra interpretazioni diverse dei problemi della città. Intorno a questa antinomia sembrano convergere interessi che solo parzialmente – diciamo così - corrispondono alla reale esigenza di una vita urbana più felice e più ricca. Sono gli interessi politici dei partiti che cavalcano la xenofobia e i valori dell'ordine, gli interessi di chi vorrebbe valorizzato il patrimonio immobiliare, l'interesse economico di società di servizio alla ricerca di nuove iniezioni di liquidità, l'interesse dei costruttori a ottenere nuove cubature garantendo di amministrare spazi sottratti al pubblico, le manovre di partito per scalzare un sindaco non gradito. Non ultimo, il sistema dei media, spesso legato ad uno o più di questi attori, e comunque interessato all'immediato riscontro che deriva dal cavalcare ondate di panico. I direttori invitano i loro redattori a scrivere un giornale come un post acchiappa-clic, a cavalcare l'emotività del momento ignorando il contesto ed evitando di fare e farsi troppe domande.
Secondo il dizionario, il decoro è “un complesso di valori e atteggiamenti ritenuti confacenti a una vita dignitosa, riservata, corretta”. Una definizione, questa, che si presta a interpretazioni fortemente idiosincratiche. Ognuno considera la dignità, la riservatezza e la correttezza secondo il proprio sistema di valori. Per questo il termine decoro fatica a diventare un concetto, tanto meno rappresenta una categoria utile alla riflessione. Decoro è un significante vuoto che si presta a proiettare una nuova ideologia della città. Di cosa viene riempita concretamente questa antinomia degrado-decoro nella recente ondata panica? Chi sono gli antagonisti dei paladini del decoro? Proviamo a fare un elenco sintetico degli elementi che costituiscono questo “complesso di valori e atteggiamenti” contro cui combatte il nostro eroe-città. I difensori del decoro si scagliano contro le inefficienze e gli sprechi della pubblica amministrazione, ostacolano ogni forma di accoglienza e inclusione sociale e inarcano il sopracciglio quando i poveri compaiono nei luoghi pubblici, sorvegliano eventuali illeciti amministrativi (per lo più minimi: i venditori ambulanti), proclamano emergenze causate dalla micro-illegalità (dai piccoli furti al graffitismo), si indignano per le violazioni del codice della strada, imprecano ogni volta che l'ordine è turbato da cortei. Più in generale, invocare il decoro vuol dire inibire l'uso dello spazio (cioè la frequentazione non museale dei monumenti e degli spazi pubblici, il mangiare o bere in strada, le aggregazioni spontanee, gli schiamazzi, l'esibizionismo, i bagni nelle fontane) e battere il tempo (attraverso il disciplinamento degli orari d'uso degli spazi e della vita notturna). La qualità della vita urbana peggiora drasticamente e poiché non è possibile fuggire dalla città, non c'è un fuori dalla vita in comune e dai suo attriti, è quantomeno necessaria una interpretazione in grado di offrire un'alternativa alla disperazione.
Negli anni Cinquanta i situazionisti francesi evidenziavano come la vita urbana potesse essere ridotta a un percorso triangolare descritto da tre vertici: la casa, il lavoro, il luogo del tempo libero. In questa condizione, l'unico modo di evadere dalla noia era la psicogeografia, cioè la capacità di muoversi nello spazio urbano ridefinendolo. Ma quella noia era anche occasione di incontri ripetuti nel tempo, della possibilità di costruire su quei percorsi una vita urbana reale, fatta di “di aggregazione, di simultaneità e di incontro”, per dirla con Henry Lefebvre. Oggi quel modello si è dissolto. Non c'è tempo per la noia, c'è solo lavoro, consumo e circolazione veloce. Quando il lavoro diventa precario e si frantuma, quando l'offerta di consumo si moltiplica e anche la casa è sempre meno uno stabile porto da cui muoversi e tornare, scompaiono i percorsi permanenti che, pur tra mille difficoltà, realizzano la città come luogo da vivere. Sempre più spesso, ad esempio, la casa è anche il luogo di lavoro e/o di disoccupazione, e il divertimento avviene a pochi passi dalla propria abitazione, presso il centro commerciale/ghetto dentro al quale ripararsi. Ecco allora il desiderio di uno spazio liscio, completamente deterritorializzato, in cui ogni percorso deve essere privo di attriti fisici e di impedimenti materiali o fantasmatici. Ecco il decoro come equivalente generale del bello, spazio di scorrimento neutro delle world class city, ovunque uguale a se stesso, a Oslo come a New York o Varsavia.
Non è un caso che spesso le campagne sul decoro e contro il degrado colpiscano i quartieri in fase di gentrificazione. Quelle zone della città, cioè, caratterizzate da mobilità e vivacità culturale. Si pensi al Pigneto a Roma e all'utilizzo del brand Pasolini per vendere una parte di città e trasformarla in luogo pittoresco e al tempo stesso di facile fruizione. Si cercano tutti gli aspetti positivi del lavoro creativo, della sperimentazione artistica, della mano d'opera a basso costo nella restaurazione edilizia e dietro ai fornelli delle cucine a vista e delle brasserie, cercando di espungere ogni forma di conflitto. Cos'è la dunque la gentrification se non la messa a valore del “popolare” che ha in odio il “popolo” stesso? E cos'è il decoro, se non il tentativo di creare un'emergenza permanente che addomestichi gli spiriti animali che trasformano in luogo di culto il quartiere di una metropoli? [...]
Fonte: dinamopress.it
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