di Daniele Biella
Arriva al quarto anno il Festival dei beni confiscati alle mafie 6 all’8 novembre 2015: si terrà in vari luoghi di Milano, e sarà un’occasione per raccontare le storie criminali che hanno interessato la città, promuovendo nello stesso tempo una una cittadinanza attiva e consapevole (qui il programma). Un appuntamento per parlare soprattutto di iniziative positive legate al riscatto di luoghi ed esperienze dopo la confisca.
Ma il quadro generale italiano, in particolare quando si tratta di aziende sottoposte a confisca, presenta luci e ombre. Tanto da potere parlare di una grande occasione sprecata. L’Italia delle imprese confiscate alla mafia ha una personalità sdoppiata: quello che potrebbe essere, e quello che è. Potrebbe essere costellata di centinaia di esperienze virtuose che generano lavoro, profitto e fanno capire che dello Stato ci si può fidare, della malavita per nulla al mondo. La realtà fotografa invece un grosso carrozzone in affanno dove, purtroppo, le esperienze positive di vera rinascita dopo la confisca si contano sulle dita di una mano.
Per rendersene conto basta partire dal rovescio della medaglia del caso ovvero da quello che oggi viene additato da tutti gli osservatori come il modello - e in effetti lo è - ovvero la Cooperativa Calcestruzzi Ericina Libera, nata alle porte di Trapani. «Abbiamo dovuto aspettare 15 anni, dal 1996 al 2011, per riuscire a diventare proprietari del nostro posto di lavoro», spiega Giacomo Messina, attuale presidente della coop che sta mantenendo sul mercato, e con dignitoso profitto, una realtà passata attraverso anni di attese che potevano essere letali se non fossero intervenuti soggetti istituzionali più sensibili di altri e realtà come Libera, l’associazione di don Ciotti, capaci di tenere duro nel rilancio aziendale. «Siamo orgogliosi, certo, ma è doloroso vedere che altre aziende valide, una delle quali proprio nella nostra stessa zona industriale, vanno a morire del tutto dopo la confisca», testimonia Messina.
Il dato è inesorabile: tra il sequestro, confisca definitiva e la riassegnazione passano in media tra i 6 e i 10 anni di attesa. «Sono i tempi della giustizia, dei vari gradi processuali. Troppi, naturalmente, per rimanere sul mercato», sottolinea Marella Caramazza, direttore generale della Fondazione Istud, Istituto studi direzionali, e autrice del libro “Le aziende confiscate alla mafia” (Guerini Next editore, 2014).
Segue il suo ragionamento il giornalista e docente universitario Antonio Calabrò, attuale responsabile del gruppo Cultura di Confindustria e membro del Comitato di presidenza di Assolombarda. «Possibile che chi legifera non capisca il problema? Le aziende, senza gestione, chiudono, mentre prima i mafiosi garantivano comunque lavoro: lo Stato perde credibilità, così come viene persa la sfida culturale per dimostrare che l’economia legale è meglio di quella malavitosa».
Dal 1982, anno della prima legge in materia, la Rognoni-La Torre, al 2013 (ultima rilevazione dettagliata dell’Anbsc, Agenzia nazionale beni sequestrati e confiscati) sono state 1.708 le aziende sottoposte a confisca (su un totale di 11.600 beni fra mobili e immobili), il 74% di esse concentrate nelle quattro regioni dove sono nate le organizzazioni mafiose nostrane (Sicilia al top con il 36,5%, poi Campania al 20,3 e in misura minore Calabria, 9,5% e Puglia, 7,7%, superate dalla Lombardia con il 13%) e soprattutto solo il 29% uscite dalla gestione dell’Agenzia, ovvero vendute, affittate liquidate o restituite. Di queste, solo il 3,3% era attivo sul mercato, 57 aziende in tutto. Per dati più aggiornati − «sicuramente in aumento, ma non si sa ancora quanto perché ministero della Giustizia e Ansbc non sono ancora riusciti a comparare i dati reciproci aggiornati», spiega Caramazza – bisogna attendere almeno la fine dell’estate, come ci spiegano alla stessa Agenzia, sovraccarica di lavoro ma con poco personale come ha ammesso lo stesso direttore, il prefetto Umberto Postiglione: «Dobbiamo interloquire con magistrati, amministrazioni giudiziarie, avvocati, disponendo di sole 70 persone, tra l’altro dipendenti di altre amministrazioni e quindi non fissi. Mi chiedo: quando e come è stato misurato il carico di lavoro dell’Agenzia?».
Tempi biblici, poco personale, politica latente (due ddl sono in attesa, uno da mesi in Commissione antimafia, l’altro da due anni in Commissione giustizia). Da dove ripartire, allora? «La terapia d’urto è la selettività: bisogna capire immediatamente se l’azienda in questione ha i presupposti per sopravvivere o no», indica Caramazza, «in caso positivo, si pensi subito a un progetto di destinazione, creando le condizioni di mercato necessarie e trovando i partner per l’operazione».
In caso negativo invece , «non si perda tempo, si vendano i macchinari, si mettano in cassa integrazione i lavoratori per salvaguardarli, e si chiuda la pratica», aggiunge Carlo Borgomeo, presidente della Fondazione Con il Sud, che ha all’attivo 21 progetti di riconversione di beni confiscati, «una gestione non efficace rischia di avere un effetto boomerang per il consenso della popolazione che inevitabilmente viene a mancare». Accanto alla selettività, la seconda azione urgente per rilanciare le aziende confiscate riguarda il ruolo degli amministratori giudiziari.
«Non per loro scarsa volontà ma per un dato di fatto: fin dal giorno successivo alla confisca manca la capacità imprenditoriale per tenere le redini dell’azienda. A tali amministratori andrebbero affiancate fin da subito figure manageriali», specifica Caramazza. In tal senso, Assolombarda, Aldai e Fondirigenti hanno organizzato corsi per 63 manager proprio su gestione e rilancio delle imprese sequestrate. «Una gestione solo burocratica, tribunalizia, non porta da nessuna parte: ci vuole chi imposti un piano di rientro, chi sappia rinegoziare i debiti, riscuotere le buste paga dei dipendenti e così via», aggiunge Calabrò.
Sul tema è d’accordo anche Davide Pati, dal 2001 responsabile beni confiscati di Libera: «Le professionalità sono importanti, per questo affiancare l’amministratore con chi ha esperienza gestionale è sicuramente utile ed è un passo necessario, anche se non risolve tutte le criticità, come per esempio la difficoltà di accesso al credito per un’azienda confiscata», sottolinea.
La Coop Calcestruzzi Ericina Libera nel 2008 ha bussato invano a molte banche prima di trovare in Unipol l’unica realtà – oggi fanno questo servizio di sostegno anche Bcc e Banca Etica – a concedere fiducia ai soci lavoratori. L’azienda cooperativa trapanese è diventata quello che è «grazie all’intenso lavoro di squadra di dipendenti, Prefettura, Procura, Libera, Legacoop e Legambiente», rimarca il presidente Messina, «se fosse mancato un solo attore, non ce l’avremmo fatta. L’unione degli sforzi è l’unica possibilità di ripartire vincenti dopo la confisca».
All’orizzonte, in questo senso, bagliori nel buio arrivano dai classici del made in Italy. «Il caseificio Don Diana di Castelvolturno è supportato da 4 anni da Granarolo, mentre un maglificio confiscato a Quindici, nell’avellinese, sarà seguito da alcuni lanifici di Perugia e Biella. È un impegno di Csr che può dare ottimi frutti», conclude Pati.
Fonte: Vita.it
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