La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 1 novembre 2015

Il poeta e le metamorfosi di un paese

di Fabio Francione
Paso­lini ha 37 anni quando intra­prende su com­mis­sione del roto­calcoSuc­cesso un viag­gio a bordo della sua auto, una ber­lina mil­le­cento, tutt’intorno alla peni­sola: da Ven­ti­mi­glia a Trie­ste. Fu, que­sto, il suo «viag­gio in Ita­lia», trac­ciato lungo una «strada di sab­bia» sulla quale è molto più facile lasciare sì tracce, ma anche can­cel­larle. Sem­bra un Paso­lini ine­dito, idil­liaco per certi versi, felice nello sco­prire luo­ghi e per­sone di un’Italia più letta che vis­suta, nell’andirivieni da nord a sud. Ad essere visi­tate sono loca­lità bal­neari come Por­to­fino, Forte dei Marmi, e giù fino a Ravello e a Ischia (assa­lita da cascami post-crepuscolari moret­tiani più che viscon­tiani), e risa­lendo l’Adriatico con soste a Rimini prima di arri­vare alla Trie­ste «sot­to­so­pra» cara a molti.
Eppure, sul finire di que­gli anni ’50, Paso­lini ha già sag­giato il cinema scri­vendo sce­neg­gia­ture, anche belle, più per sbar­care il luna­rio che per con­vin­zione (almeno fino a quell’anno per­ché di lì a poco girerà, dopo il «gran rifiuto» di Fel­lini, Accat­tone, forse il suo film più bello ad ascol­tare Mora­via); Le ceneri di Gram­sci lo con­sa­crano, anche con premi impor­tanti, defi­ni­ti­va­mente come poeta; i suoi romanzi e rac­conti vio­lenti e di vita susci­tano scan­dalo; comin­cia a par­te­ci­pare al dibat­tito pub­blico uscendo dai recinti, a lui già poco con­ge­niali, dell’intellettuale votato allo stu­dio e alla rifles­sione inclu­siva sulla sua opera.
Le foto che lo ritrag­gono in abiti quasi sem­pre pro­fes­so­rali lasce­ranno il posto a un abbi­glia­mento più casual e modaiolo.
Paso­lini sa meglio e più di altri caval­care lo spi­rito del tempo che cam­bia, nono­stante gli lacri­mino gli occhi per l’innocenza per­duta. Da chi? Dall’Italia, dalla sua gente, dai suoi ragazzi? Oggi che altre muta­zioni sem­brano cogliere impre­pa­rata l’umanità non pare più vero acca­nirsi sulla radi­ca­lità della visione paso­li­niana e le sue evi­denti con­trad­di­zioni, se osser­vate con il can­noc­chiale a rove­scio della sto­ria e non «in salsa pic­cante», ritro­vano la loro pri­mi­ge­nia carica di futuro e di pro­fe­zia. Per ini­ziare nuovi discorsi. Insomma, comin­ciano in quel torno di anni anche i viaggi indiani e afri­cani con lo scrit­tore di Ago­stino e de La noia, i sopral­luo­ghi medio­rien­tali per i film, e andando in avanti con gli anni il sog­giorno ame­ri­cano in piena era hippie-beat e i tanti ritorni in oriente, desti­nati soprat­tutto alla rea­liz­za­zione della «Tri­lo­gia della vita». Insomma, s’affaccia allora pre­po­tente e va sot­to­li­neata pub­blica, quella «dispe­rata vita­lità» che por­terà il poeta-regista friu­lano, fino al tra­gico e «incon­gruo» epi­logo, per ciò che aveva in mente di scri­vere, fil­mare e rea­liz­zare, della sua esi­stenza, a per­cor­rere sen­tieri e strade — come pia­ceva dire a Giu­seppe Ber­to­lucci – della socio­lo­gia, antro­po­lo­gia, lin­gui­stica, della cri­tica let­te­ra­ria e cine­ma­to­gra­fica, del gior­na­li­smo, men­tre pra­ti­cava con la mede­sima inten­sità nar­ra­tiva, poe­sia, regia cine­ma­to­gra­fica, tea­tro (e in aggiunta sulle assi del pal­co­sce­nico ci provò anche da regi­sta) e, più clan­de­sti­na­mente, pit­tura e disegno.
Sul repor­tage pub­bli­cato e sull’originale mano­scritto della Lunga strada di sab­bia, sul quale pos­sono essere letti i tagli reda­zio­nali della rivi­sta, ha lavo­rato quarant’anni dopo, sfrut­tando coin­ci­denze ina­spet­tate e incon­tri straor­di­nari, Phi­lippe Séclier. Il foto­grafo fran­cese seria­lizza il viag­gio di Paso­lini in una serie di imma­gini in bianco e nero che ten­tano di fis­sare – a poste­riori e con la memo­ria tra­man­data dalle foto e dal cinema del tempo (sco­mo­dare il neo­rea­li­smo nel ’59 quando già viveva il suo terzo se non quarto tempo può essere eser­ci­zio quanto mai lezioso) – sen­sa­zioni forse irripetibili.
Qui le imma­gini sem­brano sutu­rare le ferite e pro­fonde tra­sfor­ma­zioni di un decen­nio con l’altro; il pas­sag­gio dagli anni cin­quanta ai ses­santa non fu indo­lore per la nazione.
Anzi, le foto a noi con­tem­po­ra­nee e, allo stesso tempo, «a ritroso» di Séclier, sem­brano ride­fi­nite dall’allestimento rea­liz­zato nelle sale del nuovo Spa­zio Forma Mera­vi­gli di Milano (via Mera­vi­gli 5, visi­ta­bile fino al 15 novem­bre con il titolo La vera Ita­lia? Due inchie­ste di Pier Paolo Paso­lini, cata­lo­ghi Con­tra­sto) in logica con­ti­nuità tem­po­rale con le foto­gra­fie di scena scat­tate da Mario Don­dero e Angelo Novi sul «set» diComizi d’amore, il film–inchiesta sulla ses­sua­lità degli ita­liani rea­liz­zato nel 1963. Nell’osservare le sequenze, nello stu­pirsi nel rico­no­scere per­so­naggi della leva­tura di Unga­retti, Musatti, Mora­via (e sapere cosa rispo­sero alle domande sco­mode sfron­tate, forse iro­ni­ca­mente spu­do­rate, di Paso­lini), così messi sullo stesso piano di scu­gnizzi e ragaz­zini di bor­gata in tra­sferta al mare, leg­gere i dia­lo­ghi intro­dut­tivi, peda­go­gici, ultra­di­da­sca­lie alla mostra, non si può non pen­sare che, dopo­tutto e ancora oggi da quel lito­rale romano che osti­na­ta­mente cerca di «non essere cat­tivo», «il mon­tag­gio opera dun­que sul mate­riale del film quello che la morte opera sulla vita».

Fonte: il manifesto 

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