di Franco Bifo Berardi
In un film recente e bellissimo che si chiama Non essere cattivo, Claudio Caligari ha riproposto i luoghi e le atmosfere della Ostia di Pasolini (quella dei suoi romanzi, quella della sua morte). La storia si svolge nel 1995, cioè a metà strada tra l’anno in cui Pasolini fu ucciso, e l’oggi, il nostro tempo in cui la demenza e la barbarie sono uscite dai margini per invadere il centro della scena.
Se pensiamo ai quarant’anni che ci separano dalla morte di Pasolini ci rendiamo conto del fatto che il suo presentimento più oscuro e più marcio si è progressivamente fatta realtà nella storia di questo paese, mentre l’immaginazione distopica si impadronisce della storia del mondo. Nel suo Salò Pasolini aveva colto la sostanza eterna del fascismo, collocandone il tempo nel passato, ma presentendo il suo riemergere nella mutazione culturale che allora si delineava ambiguamente all’orizzonte. Quel futuro che oggi è presente Pasolini non seppe descriverlo se non in termini nostalgici, passatisti, in ultima analisi reazionari.
Non essere cattivo racconta una storia che si colloca nel punto in cui lo sprofondamento della mente collettiva inizia dai margini della vita sottoproletaria, della periferia urbana e della droga.In questi ultimi anni il cinema italiano ha ritrovato forza espressiva perché ha avuto il coraggio di guardare negli occhi l’orrore psichico e morale dell’epoca presente attraverso le lenti specificamente italiane della demenza barocca, dell’euforia aggressiva e dell’autodisprezzo depressivo. Matteo Garrone (Gomorra e Reality), Nanni Moretti (Habemus Papam) e Sorrentino (Il Divo, La Grande bellezza) hanno ripreso il filo della diagnosi pasoliniana: la sguaiatezza del fascismo eterno che Pasolini mette in scena nel Salò, si è fatta pervasiva, quasi ubiqua, e va in onda quotidianamente sui giornali, in tivu e nella vita.
Non essere cattivo racconta una storia che si colloca nel punto in cui lo sprofondamento della mente collettiva inizia dai margini della vita sottoproletaria, della periferia urbana e della droga.In questi ultimi anni il cinema italiano ha ritrovato forza espressiva perché ha avuto il coraggio di guardare negli occhi l’orrore psichico e morale dell’epoca presente attraverso le lenti specificamente italiane della demenza barocca, dell’euforia aggressiva e dell’autodisprezzo depressivo. Matteo Garrone (Gomorra e Reality), Nanni Moretti (Habemus Papam) e Sorrentino (Il Divo, La Grande bellezza) hanno ripreso il filo della diagnosi pasoliniana: la sguaiatezza del fascismo eterno che Pasolini mette in scena nel Salò, si è fatta pervasiva, quasi ubiqua, e va in onda quotidianamente sui giornali, in tivu e nella vita.
Penso che Pasolini sia stato capace di vedere con anticipo lo scivolamento nell’orrore post-moderno, ma al tempo stesso penso che fosse costitutivamente incapace di tradurre le sue visioni in parole, idee, progetti: penso che Pasolini sia stato un cattivo ideologo, sostanzialmente reazionario e moralista. Ma è anche stato un visionario in senso proprio: la sua immaginazione ha “visto”, ha presentito quello che oggi si dispiega sotto i nostri occhi.
Negli anni dell’adolescenza avevo visto Il Vangelo secondo Matteo e Teorema, ma Pier Paolo Pasolini irruppe nel mio immaginario di diciottenne solo nel 1968, quando L’Espresso pubblicò la famosa poesia sulla battaglia di Valle Giulia, quella in cui prende le difese del poliziotto contro lo studente contestatore figlio di papà.
Con le categorie di cui disponevo allora, etichettai spregiativamente Pasolini come populista, pur subendo il fascino del suo coraggio intellettuale e del suo anticonformismo. Nel 1974 leggevo le lettere a Gennariello che Pasolini pubblicava sul Corriere della sera. Erano lettere a un mitico ragazzino dell’Italia autentica che stava scomparendo, lettere con cui il poeta voleva salvare l’autenticità di un’anima popolare immaginaria. Lo leggevo e mi era antipatico. Quell’uomo taciturno e schivo mi affascinava, però lo sentivo lontano, giudice arcigno di una realtà che a me appariva invece carica di possibilità.
C’era nei suoi scritti l’asprezza di chi si sente tradito dall’incedere caotico di fenomeni innovativi nel costume, nella tecnologia, nell’immaginario. E c’era la nostalgia di un tempo mitologico, di un passato di immaginaria integrità. La modernità lo irritava. E soprattutto (questo era ciò che più gli rimproveravo in cuor mio) non voleva vedere come dentro i comportamenti giovanili era all’opera una mutazione eterogenea, differenziata, aperta ad esiti molteplici e imprevedibili.
Pasolini vedeva emergere un nuovo fascismo dal mutamento tecnologico, dalla mutazione antropologica che si delineava con la diffusione della televisione e dei consumi di massa.
“il fascismo, scriveva Pasolini in un articolo uscito sul Corriere nel dicembre del 1973, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specialmente la televisione) non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre.”
La nostalgia umanistica di Pasolini aveva molti elementi in comune con lo stile di pensiero che proveniva dalla Scuola di Francoforte (per esempio da Herbert Marcuse che in quegli anni era molto letto). La prospettiva dei francofortesi mostrava una società integrata, dominata dai modelli di consumo omologati, incapace di reazione politica e culturale. Ma la mia generazione stava vivendo un’esperienza molto diversa da quella che i teorici dell’integrazione neocapitalista andavano descrivendo: l’esperienza di una rottura del conformismo consumista, lo sgretolamento dell’omogeneità sociale, l’emergere di lotte autonome dei giovani operai.
Laddove i francofortesi vedevano l’affermarsi di un materialismo omologante, noi vedevamo, con Mari Tronti, il formarsi di “una rude razza pagana senza fede senza ideali senza illusioni” che avrebbe condotto l’attacco contro lo sfruttamento e in questo modo svelato il carattere disumano della mercificazione e avrebbe liberato la società dal dominio delle cose e del profitto.
Tronti contro Marcuse: queste erano le coordinate del mio orientarmi nel pensiero politico di allora.
Una questione simile ritrovavo nel dibattito letterario italiano di quegli anni che opponeva a Pasolini gli scrittori della neoavanguardia sperimentale. Balestrini, Eco, Pagliarani, Barilli cercavano di cogliere nell’innovazione sociale ed estetica del neocapitalismo una potenzialità e una biforcazione possibile. Si stava riproponendo per certi aspetti la discussione che qualche decennio prima aveva opposto Benjamin ad Adorno: il primo cercava nelle nuove tecnologie di comunicazione potenzialità e risorse che il secondo considerava cancellate dalla massificazione, e dalla perdita di autenticità.
Perciò in quei primi anni Settanta vedevo Pasolini come il nostalgico di un’epoca passata, un coraggioso stimolante affascinante reazionario.
Non mi pento, sia ben chiaro, di quella mia lettura giovanile. Avevo capito qualcosa, ma non avevo capito l’essenziale. Ho cominciato a capire l’essenziale di Pasolini dopo il ’77, dopo l’esplosione del movimento di quello che noi chiamavamo allora proletariato giovanile. Il nostro movimento aveva in un certo senso cercato di rovesciare la visione pasoliniana.
Noi partivamo proprio da quelle forme di vita che Pasolini considerava “fasciste”, omologanti, partivamo da forme di vita che altri condannavano come barbariche, perché in quella barbarie cercavamo di introdurre l’ironia e l’autonomia e la critica pratica. Volevamo collegare l’energia barbarica di quello che il movimento operaio etichettava come sottoproletariato alle lotte autonome degli operai. Volevamo fare della letteratura un gioco selvaggio di liberazione della creatività. Al consumismo avevamo reagito con l’idea di una riappropriazione felice ed ironica delle merci, piuttosto che condannarlo in nome di qualche passatista integrità.
In questo senso eravamo sullo stesso terreno di Pasolini, ma al suo Gennariello non dicevamo: rimani antico se vuoi essere umano. Dicevamo piuttosto: sfida la modernità per tirarne fuori nuovi orizzonti di umanità. Poi le cose sono andate come sono andate. Non tutte nel verso che avevamo pensato noi. E dopo il ’77, la mia prospettiva si è poco alla volta modificata. Ho cominciato a capire una cosa che prima mi era sfuggita, e invece era fondamentale: lo sguardo di Pasolini non era quello corto del critico politico, ma era lo sguardo lungo dell’antropologo.
Quella che lui intravedeva era una mutazione più lunga e più profonda di quella su cui avevamo posto lo sguardo noi. Non voglio dire che lui avesse ragione e noi torto, avevamo visto facce diverse dello stesso processo. Pasolini aveva capito con anticipo che la potenza della mutazione tecnologica era destinata a prevalere sulle culture libertarie ed egualitarie che effettivamente costituivano il punto di arrivo dell’intera tradizione umanistica.
Pasolini si era messo in questo modo fuori tempo, ma purtroppo quel suo fuori tempo significava un anzitempo. Aveva capito che di fronte all’incedere della mediatizzazione accade qualcosa che concerne il sensorio umano, il rapporto tra immaginario e immaginazione, e che in questa mutazione la politica non c’entra molto, l’azione volontaria può non essere efficace, e aveva presentito l’emarginazione di cui l’intellettuale era destinato a diventare vittima. Aveva presentito molto dell’epoca presente.
Nel 2000, in occasione del venticinquennale della morte di Pasolini il regista Guido Chiesa realizzò un filmato che andò in onda su Telepiù, intitolato “Provini per un massacro”. Un certo numero di ragazzi si presentavano davanti alla telecamera per un provino per un film su Pier Paolo Pasolini, e a ciascuno di loro veniva chiesto se avrebbero accettato di fare scene disgustose, come mangiare merda e mostrarsi in atteggiamenti non proprio dignitosi. Le risposte dei ragazzi erano la migliore (la più disperante) conferma immaginabile alla previsione dello scrittore.
Conformismo, perbenismo, insicurezza si mescolavano con il servilismo nei confronti del potere (rappresentato dalla telecamera), con l’ipocrita disponibilità a fare qualsiasi cosa se si tratta di lavoro, se si tratta di televisione, se si tratta di guadagnare un po’ di denaro e di apparire un po’. Il film di Guido Chiesa (di cui purtroppo si è parlato poco e meriterebbe di essere rivisto) vien fuori come un discorso lucido e senza molte speranze sulla prima generazione postumana.
Ma chi siamo noi, uomini del ventesimo secolo, uomini del passato, per giudicare l’imprevedibile che dal postumano è destinato a venire?
Articolo ripreso da Zeroviolenza
Fonte: Effimera
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